Il plenum straordinario del Csm riunito a Roma martedì. Foto LaPresse

Il Csm, le correnti fuori controllo e quei togati nella parte delle tre scimmiette

Salvatore Merlo

Mele marce. Cronaca di un minuetto d’ipocrisia che lascia poco sperare sulla capacità dei magistrati di autoriformare se stessi

Alle 16.40, con accademico ritardo, i componenti del Consiglio superiore della magistratura fanno il loro lento ingresso nell’auletta del Palazzo dei Marescialli, in piazza Indipendenza, a un passo dalla stazione Termini. Si avverte una certa aria conviviale, quasi leggera, confluente nello spirito, molto romana verrebbe da dire, e che tuttavia un po’ stona con la serietà degli eventi che nel frattempo investono alle radici la credibilità della magistratura intera e del suo organo di autogoverno. Il dottor Giovanni Zaccaro, abito scuro, barba e occhiali alla moda, magistrato pugliese dall’aria rotonda e simpatica, si aggira intorno al tavolo circolare, mentre si sta lentamente riempiendo. A un certo punto, appena nota che manca la targhetta del collega Luigi Spina – l’unico magistrato che si è veramente dimesso dal Csm dopo lo scandalo intorno alla procura di Roma – scherzando e ridendo Zaccaro si rivolge ai colleghi con aria sorniona. E ammiccando: “Ma Spina è zompato proprio. L’hanno eliminato. Cancellato”. E Giuseppe Cascini, uno dei potenti, uno degli uomini del consenso organizzato nella magistratura, già segretario dell’Anm, di rimando ironico: “Disumano proprio”. Sulla base di questi toni faceti (si fa per dire) chi ascolta immagina subito che, insomma, come usa dire: la situazione al Csm forse è grave, ma non è davvero seria. E infatti, seduti attorno al tavolo circolare del quarto piano, in poco più di un’ora, ecco che i membri laici e togati, i magistrati e gli eletti dal Parlamento (che sono in numero minore), con una serie di interventi, uno più stupefacente dell’altro, mettono in scena un rimpiattino perfetto fra mezze verità, omissioni e ammissioni imperfette. Un minuetto dell’ipocrisia che poco lascia sperare sulla capacità che questi magistrati dovrebbero avere di autoriformare il sistema di nomina dei dirigenti negli uffici giudiziari dopo i gravissimi fatti che sono emersi negli ultimi giorni.

     

La linea, d’altra parte, è chiara sebbene espressa tramite bizantinismi lessicali: poche mele marce, il sistema è sostanzialmente sano. Cascini lo dice bene, a un certo punto. “E’ un errore descrivere gli eventi emersi negli ultimi giorni come una lotta tra correnti. Sono personalismi”, dice il magistrato, senza che nessuno dei presenti sollevi nemmeno un sopracciglio. “E’ anzi la debolezza delle correnti che favorisce le associazioni occulte”. Eppure, nel suo discorso introduttivo, il vicepresidente del Csm, David Ermini, con parole che dovevano essere state concordate con Sergio Mattarella, pur riconoscendo i meriti dell’associazionismo aveva parlato di “degenerazioni correntizie”, “giochi di potere”, “traffici venali” e della necessità di “reazioni chiare, rapide e non suscettibili a fraintendimenti”. Tutto il contrario di ciò che sta in realtà succedendo dentro il Csm. E questo malgrado la base, cioè i magistrati che votano e lavorano, sia estremamente preoccupata. Lunedì, a Bologna, a un’assemblea dell’Anm, si sono riuniti oltre ottanta magistrati. Una partecipazione che non si vedeva da anni, e che ha prodotto un documento molto diverso da quello parallelo con cui l’Anm di Milano denunciava invece – in linea con il traccheggio del Csm – le poche mele marce. “Il sentimento comune emerso nel corso dell’assemblea”, hanno scritto i magistrati bolognesi, “afferma con forza la necessità di adottare misure di riforma idonee a rendere di assoluta trasparenza l’operato del Csm. E a prevedere stringenti criteri volti a orientarne la discrezionalità, garantendo una corretta selezione in tutte le scelte da assumere”. E invece ieri la risposta paradossale del Csm è stata il “plauso” corale per i tre consiglieri togati che, dopo lo scandalo, si sono “autospesi”, hanno cioè aderito a quella fantasiosa e furbesca invenzione giuridica che in Italia permette di non dimettersi mai e di prendere tempo. 

    

E infatti cinque poltrone vuote, nell’aula del Csm, segnalano l’assenza dei cinque magistrati lambiti dallo scandalo. Uno si è dimesso, Spina. Gli altri, come si è detto, si sono invece autosospesi. E come mormorano i magistrati della base, quelli che osservano questo brutto spettacolo di contorsioni e piegamenti con un misto di indignazione e timore, i quattro consiglieri si sono autosospesi – e non dimessi – soltanto per non modificare in alcun modo lo status quo degli equilibri di potere interni al Csm. Se infatti i dottori Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni si dimettessero, a loro posto subentrerebbero eletti di gruppi correntizi opposti, abbastanza da rovesciare il bilanciamento del Consiglio, le sue proporzioni, i suoi accordi interni. E qui si capisce che proprio c’è qualcosa che non va. E che non va in profondità, nei meccanismi consolidati che regolano la vita associativa dei magistrati italiani. Tutti i consiglieri aderiscono infatti a un intervento letto in aula dalla dottoressa Alessandra Dal Moro, magistrato di Area – tailleur grigio, spilla di perle sul bavero e fazzoletto tono su tono legato al collo – che ripete in cantilena parole pompose come “sgomento”, “siamo amareggiati”, “il nostro modello di magistrato è lontano dal potere e dai poteri”. Mentre insomma nel corso del plenum del Csm la dottoressa Dal Moro dice, a nome di tutti, che “non ci riconosciamo in comportamenti che vanno in cerca del consenso” e invoca liricamente un “serio e profondo processo di riforma, autoriforma e autocritica”, ecco che tutti, allo stesso tempo, si dicono anche estremamente soddisfatti delle non dimissioni dei loro quattro colleghi. Tanto che si viene quasi colti da un capogiro nell’ascoltare una così evidente incongruenza logica. Non ci sono smorfie da medico al capezzale del moribondo che bastino a esprimere i dubbi sulla capacità e persino sulla volontà che questi magistrati hanno di intervenire sul serio. E infatti i membri del Csm sono quasi tutti capi e capetti di corrente, lobby e fazione. Come Luca Palamara e Cosimo Ferri, finiti nel tritacarne e adesso considerati radioattivi da quegli stessi colleghi che pure, fino a qualche giorno fa, li cercavano a telefono. Si raccomandavano. Tanto che il contenuto delle chat sul telefonino di Palamara, le conversazioni recuperate dagli inquirenti, chat anche vecchissime di anni, sono in queste ore il vero terrore di tanti magistrati anche importantissimi. E d’altra parte sono proprio loro, i membri del Csm, quelli che a ogni consiliatura si battono con il coltello tra i denti per andare nella V commissione, quella che organizza il potere vero, perché determina gli incarichi direttivi, ovvero decide chi – e a quale gruppo – andranno assegnati i procuratori della Repubblica, i presidenti dei Tribunali, i procuratori generali… E sono loro che praticamente a ogni consiliatura si autoriformano per finta. L’ultima volta nel 2015, con il famigerato “testo unico per la dirigenza”. Doveva risolvere tutte le storture. Eliminare la discrezionalità. La degenerazione. “E’ stato l’esatto contrario”, dice Michele Vietti, ex vicepresidente del Csm. “Era un testo con più di cento articoli. Più regole involute scrivi, più offri appigli e alibi per le forzature correntizie”. Tutto un cosmo, quello delle correnti, che con il tramonto delle ideologie, delle culture e delle idealità, ha ormai da tempo sfumato il suo connotato politico culturale fino a privilegiare criteri esclusivamente corporativi e spartitori, determinando paradossi nella stessa gestione dell’iniziativa penale nelle procure, e non solo, come dicono tanti magistrati. Un atroce degrado che viene imputridendo come un tumore. “Il carrierismo è diventata una malattia, un virus”, dice Morena Plazzi, il procuratore aggiunto di Bologna. “Ora o noi alziamo la testa. Tracciamo una linea. O davvero ci autoriformiamo, o altrimenti, e lo dico con estrema amarezza, ci saremo meritati un intervento di riforma calato dall’alto. Un intervento della politica”. E insomma un mondo che si descrive, e si percepisce, dominato dalla coscienza civile, si è all’improvviso ritrovato in un paesaggio torbido, dove non la coscienza istituzionale, ma forze sotterranee sembrano governare gli uomini. Mentre il Csm tra bizantinismi e furbe contraddizioni, sembra voler continuare così. Basta appendere per i piedi Palamara. Il cattivo. E si va avanti. Anche Sebastiano Ardita, l’allievo e alleato politico di Piercamillo Davigo, nel corso del plenum, ieri, si è abbandonato alla deriva un po’ ipocrita, riferendosi a Palamara e agli altri come a “un gruppo di potere che ha cercato di dominare questo Consiglio senza riuscirci, ma riuscendoci nel precedente”. Eppure Davigo aveva votato per lo stesso candidato di Palamara e Ferri alla procura di Roma. Per quel magistrato, certamente una degnissima persona, che oggi il plenum avrebbe dovuto nominare procuratore della Repubblica anche con il voto, si presume, di Ardita. E insomma con quel “gruppo di potere” in realtà, si presume, ci si erano fatti accordi. Del tutto leciti. Ed era una cosa assolutamente normale. La degenerazione nel correntismo è una colpa collettiva, e non la si può scaricare soltanto su alcuni. Altrimenti i togati rischiano di fare come le famose scimmiette, non vedo, non sento e non parlo. Pur di lasciare tutto com’è.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.