Nino Di Matteo (LaPresse)

Di Matteo si ricordi che non è un Salvini qualunque

Ermes Antonucci

Il consigliere del Csm si appella alla politica affinché intervenga per vanificare la sentenza della Consulta sull'ergastolo ostativo. È il segnale di un'ostilità profonda (e pericolosa) ai principi cardine del nostro assetto democratico

Non si era mai visto un componente del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, appellarsi alla politica affinché questa intervenisse per vanificare una sentenza della Corte costituzionale, la massima istituzione di garanzia del nostro paese. Ma è quello che ha fatto il consigliere Nino Di Matteo, commentando la sentenza della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo per quanto riguarda il divieto di accedere ai permessi premio. Una decisione, come abbiamo sottolineato, che non comporterà in alcun modo un’uscita di massa di mafiosi e terroristi dalle carceri italiane, ma che anzi va nella direzione di restituire alla stessa magistratura il potere discrezionale di esprimersi, di volta in volta, sulla concessione o meno dei benefici penitenziari a quei mafiosi e terroristi che, pur non avendo collaborato con la giustizia (perché non in grado o per paura di ritorsioni) hanno dimostrato di non avere più legami con la criminalità organizzata e di avere realizzato un sano percorso di rieducazione, come previsto dalla nostra Costituzione.

  

Alimentando gli allarmi ingiustificati dei manettari, invece, Di Matteo è intervenuto pubblicamente per criticare la sentenza della Consulta, auspicando nientedimeno che un intervento della politica per reagire contro la decisione dei giudici. “La sentenza ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo apre un varco potenzialmente pericoloso”, ha detto il pm. “Dobbiamo evitare che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista intendeva raggiungere con gli attentati degli anni '92-'94 – ha aggiunto – Spero che la politica sappia prontamente reagire e, sulla scia delle indicazioni della Corte costituzionale, approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all'ergastolo”.

   

Per anni si è creduto che le continue esternazioni mediatiche del pm Di Matteo, la sua antimafia militante e creativa (che ha portato addirittura a imbastire un processo su una fantomatica trattativa tra lo stato e una mafia stragista storicamente sconfitta) e i suoi interventi nel campo nella politica (indimenticabile il “programma di riforme” che delineò nel 2018 alla convention del M5s: più intercettazioni, più arresti, più sequestri preventivi, pene più alte, uso di agenti sotto copertura, abolizione della prescrizione) fossero solo il frutto del desiderio dell’ennesimo magistrato di raggiungere l’olimpo della notorietà e della la carriera togata. Persino quando lo scorso settembre, durante la campagna elettorale per le elezioni suppletive Csm (poi vinte come secondo candidato più votato), Di Matteo si era scagliato contro le stesse correnti dei magistrati, impiegando un paragone spropositato (“usano metodi vicini alla mentalità mafiosa”), le dichiarazioni del pm antimafia erano passate in cavalleria, giustificate con i toni della corsa elettorale, pur essendo così gravi da spingere qualcuno a ipotizzare il vilipendio. La chiamata alle armi rivolta alla politica contro la Consulta, però, ora conferma che dietro il comportamento di Di Matteo sembra celarsi qualcosa di più serio della semplice ricerca di notorietà mediatica e politica: un’ostilità profonda nei confronti dei principi cardine dell’assetto istituzionale e democratico del paese.

   

Secondo il pm antimafia, i giudici della Corte costituzionale starebbero addirittura “concretizzando uno degli obiettivi della mafia stragista”. Con un pizzico di ironia, si potrebbe ipotizzare che ora al Palazzo della Consulta qualcuno possa essere indagato per aver partecipato alla trattativa stato-mafia.

  

Che non ci sia nulla di cui sorridere, però, lo dimostra il fatto che l’attacco a una delle massime istituzioni italiane sia giunto da un magistrato che ora siede nell’organo di autogoverno delle toghe. Fossimo un paese normale le parole di Di Matteo finirebbero dritte alla sezione disciplinare del Csm, per essere valutate in maniera seria e indipendente. Ma visto che un paese normale non lo siamo, occorrerà, come ha notato il presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, Gian Domenico Caiazza, che qualcuno (il presidente della Repubblica o il vicepresidente del Csm, David Ermini) spieghi a Di Matteo le regole fondamentali del gioco democratico, ad esempio che il legislatore non contrasta, ma si adegua, alle decisioni del giudice delle leggi. Occorre, insomma, che qualcuno ricordi a Di Matteo che egli oggi non è leader di un partito, un Salvini qualunque, ma membro di un’istituzione repubblicana.

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