L'arresto di Giovanni Brusca nel 1996 a Palermo (foto LaPresse)

Brusca non andrà ai domiciliari, ma uscirà nel 2021. Non è uno scandalo

Maurizio Crippa

Perché il parere favorevole di Cafiero De Raho affinché u’ verru possa scontare il resto della pena fuori dal carcere smentisce l’antimafia chiodata

Giovanni Brusca, “u’ verru” per sempre, il mafioso che il 23 maggio 1992 azionò il telecomando della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani; il mostro che nel 1996 uccise e sciolse nell’acido Giuseppe Di Matteo di quindici anni; lo “scannacristiani” che non ricorda il numero, ma è sicuro di averne ammazzati “meno di duecento”. Che Giovanni Brusca possa uscire, finire prima una pena che secondo molti (o i più) avrebbe dovuto avere scritto “mai”, è una eventualità che può generare un profondo fastidio, comprensibile. Compreso quello di Maria Falcone, della sorella del giudice assassinato a Capaci. In verità, è più che probabile che Giovanni Brusca non uscirà da Rebibbia per scontare ai domiciliari l’ultima parte della sua pena, nonostante il parere favorevole espresso dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. Parere che ha modificato un indirizzo tenuto in precedenza dalla stessa procura per ben otto volte dal 2002 davanti ad altrettante istanze avanzate. Non uscirà, se come pare certo la Cassazione cui Brusca ha fatto ricorso accetterà invece, domani, il parere espresso dalla Procura generale nella sua requisitoria scritta: parere opposto a quello di Cafiero De Raho. Giovanni Brusca, per quanto senso di angoscioso raccapriccio possa generare, uscirà ugualmente dal carcere per fine pena in una data non troppo lontana, novembre 2021. Poiché è stato condannato a 30 anni di carcere, non all’ergastolo (tantomeno ostativo) in base agli sconti di pena previsti dalla legislazione per la sua collaborazione nei processi (come ha ricordato De Raho). Inoltre Brusca, in base alle leggi che regolano la sua detenzione, ha già ottenuto a partire dal 2003 80 permessi per uscire dal carcere. L’ipotesi, rivelata ieri dal Corriere della Sera, che la sua condanna residuale in carcere potesse essere trasformata in detenzione domiciliare, anche se rimarrà soltanto un’ipotesi, appare dunque largamente depotenziata nel suo aspetto etico-emotivo. E anche in quello, possiamo dire, di un populismo giudiziario sempre pronto a scattare nel paese.

Ma sarebbe sbagliato ridurre la vicenda a una questione di lana caprina e procedurale, a sfumature tra diverse valutazioni di magistrati. Con il pg di Cassazione che la vede come il tribunale di Sorveglianza e il procuratore antimafia che invece ieri, ovviamente sottolineando i gravissimi crimini di Brusca, spiegava al Sole 24 Ore: “La nostra decisione di dare un parere favorevole a che si concluda questo ultimo periodo ai domiciliari è basata su altri aspetti, anche sull’analisi di come Brusca ha collaborato con la giustizia”. Cafiero De Raho ha ricordato che “ha anche reso un contributo straordinario, rappresentando contesti in cui sono maturati fatti mafiosi, ponendo delle chiamate in correità” e ha dato una valutazione positiva rispetto agli 80 permessi di cui Brusca ha goduto. Parole che indicano un diverso metro di giudizio.

 

Anche se Brusca resterà a Rebibbia, le parole del procuratore generale antimafia (in carica dal novembre 2017) vanno tenute in considerazione. Perché indicano un indirizzo diverso dai predecessori. E soprattutto sottintendono un’attitudine differente – non di buon animo, ma nel modo di maneggiare la legge – rispetto agli esponenti dell’Antimafia chiodata tra cui Nino Di Matteo, pm della Direzione nazionale antimafia, secondo cui “l’unica vera preoccupazione per i mafiosi è l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici”. A meno di voler considerare Cafiero De Raho un magistrato tenero con la criminalità organizzata (tutta la sua carriera testimonia esattamente il contrario) andrebbero poste alcune domande alla “cultura dell’antimafia” che ha dominato per decenni la nostra vita giudiziaria. Una cultura giuridica, o meglio giustizialista, in base alla quale, ad esempio, con tanto di sopralluoghi del presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, Totò Riina doveva solo morire in carcere, senza se e senza ma. O dal carcere non avrebbe mai dovuto uscire, per motivi di salute, Marcello Dell’Utri. Per stare agli esempi più noti. Si obietterà in punto di codice di procedura, a questa osservazione, che i casi richiamati sono differenti per tipologia di condanne. Ma se il diritto non è solo procedura, è evidente invece che la presa di posizione del procuratore nazionale antimafia indica la visione di uno stato di diritto non più “umanitaria”, non è il punto ed è probabile che lui la respingerebbe, ma solo rispettosa delle regole: laddove è la regola che fa la giustizia, anche nei casi che moralmente (e mediaticamente) possono ripugnare.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"