Messa nel carcere di San Vittore (LaPresse)

L'assalto del populismo allo stato di diritto

Massimo Adinolfi

Siamo ancora il paese dell’“io so, ma non ho le prove”. E la “verità-che-io-so” genera odio o amore, non imparzialità, non giustizia. La presunta colpevolezza, il potere dei pm, il carcere, la politica sotto tutela. Un’indagine filosofica

In questa pagina un ampio estratto dell’ultimo capitolo di “Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia”, il libro di Massimo Adinolfi recentemente pubblicato da Salerno Editrice (102 pp., 9,90 euro).


  

E così li hanno scarcerati. Gli stupratori. Com’è? “Io una cosa del genere non posso accettarla”, scrive su Facebook, il 28 marzo 2019, Luigi Di Maio, capo della maggior forza politica italiana, che sui temi della giustizia ha costruito buona parte delle sue recentissime fortune elettorali. Il leader dei Cinque stelle dice di non voler entrare nel merito della decisione presa dal Tribunale del riesame, però, senza entrare nel merito, commenta così: “E’ evidente che c’è qualcosa che non va in questo paese. Chi compie uno stupro, per quanto mi riguarda, deve passare il resto dei suoi giorni in carcere. Ognuno ha il diritto di difendersi, lo prevede il nostro ordinamento giuridico, ma chi è accusato di violenza sessuale contro una donna deve poterlo fare dal carcere”. In breve: l’accusa è sufficiente, da sola, per trattenere qualcuno in carcere; non ci vogliono sentenze, giudici, tribunali. E la difesa non può interferire con l’esecuzione della misura cautelare. E l’ergastolo è l’unica pena che si meritano i “presunti stupratori”, i quali nel breve volgere di qualche riga diventano senz’altro “delinquenti”, nel post di Di Maio. E comunque quel che hanno pensato, deliberato, scritto i giudici non conta. Anche se sono ben tre, e distinti, i collegi giudicanti che hanno ordinato la scarcerazione. In realtà, la ricostruzione dei fatti non è ovvia né scontata, come mostrano le motivazioni delle ordinanze, e dunque occorrerebbe massima cautela, e un “silenzio rigoroso e assoluto da parte di tutti”, come ha giustamente chiesto il presidente delle Unione Camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza. Invece Di Maio parla, parla e si indigna a gran voce, e non riesce nemmeno a immaginare che un giudice possa mettere in discussione un convincimento della pubblica accusa.

  

Far funzionare gli uffici della giustizia in Italia significa cambiare la geografia dei poteri, dentro la magistratura e nei suoi rapporti con il resto della società, e per questo è difficilissimo fare riforme incisive. Invece di tutto ciò, il tema dominante diventa l’efficacia dell’azione repressiva, perché è quello che chiede il popolo

C’è davvero qualcosa che non va in questo paese, il paese dell’“io so, anche se non ho le prove”. Ma almeno Pasolini (è lui che pronunciò sulle pagine del Corriere il più famoso degli “io so”, mettendo sotto accusa l’intera Repubblica) era un intellettuale. Ora è invece un politico, un potente, un uomo delle istituzioni che sa anche senza prove, e si vergogna se l’accusato rimane, prima di qualunque processo, libero di “farsi i cavoli propri” (parole, queste ultime, che sottintendono che la libertà del cittadino Di Maio è nobile e bella, mentre quella concessa a questi “delinquenti” è immeritata). Lui, Di Maio, sa. E sopra questo sapere fa, ovviamente, un numero da circo elettorale.

  

2. “Giudizio e giustizia sono necessari non appena compare il terzo”: per Levinas, cui appartengono queste parole, non si tratta di una condizione ideale, bensì soltanto di una situazione necessaria. Perché la relazione etica fondamentale – quella da cui nasce tutta la morale, secondo il filosofo di origini lituane – mi mette dinanzi al Volto di Altri, nella sua irriducibilità a qualunque regola, misura, norma, concetto, numero. Qui, invece, si fa avanti un Terzo. Altri è il prossimo, quello che bisogna amare come sé stessi e che, nel vocabolario di Levinas, mi sollecita una responsabilità infinita: è, nella tradizione cristiana, l’uomo percosso e derubato che muove a compassione il buon samaritano. Ma poi c’è il Terzo, che richiede uguale trattamento. “A partire da questo momento – scrive ancora Levinas – occorre paragonare, pesare, pensare, occorre fare la giustizia, sorgente della teoria”. Occorre paragonare, e come si fa a paragonare volti e persone sempre uniche e irripetibili, ciascuno con la propria verità? Dove trovare la comune misura? Levinas cita un vecchio testo talmudico: gli stati, per battere moneta, ricorrono a un calco, e stampano monete tutte eguali l’una all’altra; Dio, invece, “con il calco della sua immagine, arriva a creare una molteplicità dissimile: degli io, gli unici nel loro genere”: come rendere loro giustizia?

  

3. Poiché le figure teologiche possono apparire ingombranti, abbandono questo piccolo prologo in cielo e ritrascrivo tutta la scena in termini mondani: se sono coinvolto in una lite (con mio fratello, per esempio: è il caso di Esiodo e dell’inizio della civiltà occidentale), posso sperare di ottenere giustizia solo se accetto che un terzo sia chiamato a giudicare (a soppesare, a misurare). Ma per compiere questo passo devo accettare pure che il giudizio provenga da un’istanza che non è implicata nella contesa al modo in cui lo sono io (e, specularmente, mio fratello). Questo non è il caso in cui qualcuno mi ha derubato e io ricorro alla giustizia perché scovi il colpevole e lo punisca; è piuttosto il caso in cui io so di aver ragione, e tuttavia, per vedermela riconosciuta, devo passare per il verdetto di un terzo. Posso vendicarmi, ma non posso farmi giustizia da solo. Vendetta non è giustizia. La giustizia la si ottiene sempre da un altro. Il quale non sa le cose al modo in cui le so io, e a cui devo semmai sudare le sette camice per spiegarle. Io so, e il mio sapere è unico e irripetibile come l’incontro col Volto di Levinas. Più avanti scriverò con i trattini: “verità-che-io-so”, per riferirmi a questa verità che pretendiamo di possedere in prima persona, in presa diretta, con tutta la certezza della nostra buona coscienza, senza aver bisogno di mediazioni interpretative e di confronto con gli altri. Questa verità non è però fonte di giustizia: può generare odio oppure amore e perdono, amicizia oppure inimicizia assoluta, ma non giustizia, non imparzialità, non terzietà.

  

4. Ora è finita anche l’introduzione in terra, e si è capito dove voglio andare a parare: l’idea del diritto è connessa strutturalmente alla posizione di un terzo, che si installa necessariamente a una certa distanza dalla “cosa del giudizio” (e dalla verità-che-io-so), per cui i convenuti in giudizio avranno sempre, almeno in linea di principio, lo spazio per recriminare, persino quando si vedranno riconosciuti le loro ragioni (perché un conto è che tu, giudice, mi dai ragione un altro è il modo in cui la ho, la soffro, la vivo nella mia carne). […]

 

5. A un certo punto della nostra vita diveniamo maturi e mettiamo giudizio: cosa vogliono dire queste parole, se non proprio che impariamo a guardare noi stessi con un certo distacco, rinunciando ad alcune delle pretese più esorbitanti che fanno compagnia al nostro dire-io, alla nostra indomabile prima persona (o a quella ancor più ingombrante del popolo con cui pretendiamo di identificarci, di fare uno)? Mettiamo giudizio, ossia accettiamo che sul nostro conto giudichi un altro, a distanza, e non pretendiamo più che la verità sul nostro conto sia, per l’appunto, solo nostra.

 

Ora, se davvero abbiamo messo giudizio, possiamo guardare ai principi di una giustizia liberale senza inorridire davanti al fatto che le sue pietre angolari sono tutte (ripeto: tutte) collocate a qualche distanza dalla verità-che-io-so. Farà meraviglia allora che a questa verità troviamo avvinti tutti i populismi? Non credo.

 

Solo qualche esempio. Poniamo il caso che siano state raccolte prove che dimostrino inoppugnabilmente la colpevolezza di Tizio, ma che, per il modo in cui quelle prove sono state raccolte esse siano inutilizzabili: l’istanza del giudizio è salvaguardata sopra ogni altra cosa. Il modo in cui il giudizio si forma ha più importanza, in un ordinamento liberale, di qualunque cosa cioè gridi la vox populi: le prove inoppugnabili restano fuori dal processo. (Ma il populista griderà allo scandalo e si indignerà). […]

 

Un ultimo esempio: poiché se non hai commesso nulla di male non hai nulla da temere – così dice la saggezza popolare –, le indagini degli organi giudiziari possono farsi sempre più invasive. Possono persino spingersi a provocare il reato, per dimostrare ancor prima della sua commissione la verità-che-io-so, che anche la voce del popolo sa: che il politico in questione è corrotto, aspettava solo l’occasione che – anche questo si sa – fa l’uomo ladro. Un diritto liberale, invece, tutela la libertà di fare il male più ancora della capacità di prevenirlo. I valori della libertà e della sicurezza vanno contemperati, ma in uno Stato di diritto il punto di equilibrio è cercato a vantaggio della libertà, non della sicurezza. E l’agente provocatore non compare in un codice ispirato ai principi liberali. Un governo populista proverà invece a introdurlo.

 

6. Fin qui ho ragionato in termini alquanto astratti. In realtà, si tratta di faccende maledettamente concrete, e dietro gli esempi prodotti il lettore attento non avrà mancato di pensare a fatti e circostanze che alimentano la giostra mediatico-giudiziaria nostrana. Per restituire però l’atmosfera che domina il nostro dibattito pubblico su questi argomenti non bastano gli esempi addotti. Occorre aggiungere, molto brevemente, qualche ulteriore elemento.

 

Il primo è il panpenalismo, cioè l’irresistibile tendenza a introdurre sempre nuove figure di reato, indipendentemente da qualunque fenomenologia criminale, da qualunque osservazione degli effetti che nuove pene hanno in concreto. Non essendo in grado di fornire risposte di tipo politico, o sociale, o culturale, o educativo, si ricorre alle pene, e che poi se la sbrighino i magistrati. Poi c’è il fatto che le pene, ci mancherebbe altro, devono essere inasprite: un inasprimento non lo si nega a nessun delinquente. […]

 

Altra conseguenza da cui si sfugge sempre più a fatica, almeno nel discorso pubblico, è che pena significhi sempre più carcere, e soltanto carcere. Se la legislazione si è nel tempo evoluta, nel senso di affiancare alla detenzione pene e percorsi alternativi, nell’uso politico che si fa del tema tutto questo scompare, e fare giustizia significa quasi soltanto sbattere in galera e buttar via la chiave.

 

7. Se qualcosa mi ha colpito nell’esperienza compiuta al ministero della Giustizia come consigliere dell’allora ministro, Andrea Orlando, è invece l’evidenza con cui, nelle considerazioni sullo stato degli istituti penitenziari, in Italia, si imponessero un paio di dati: uno è l’elevatissimo numero di coloro che sono detenuti in attesa di giudizio, per cui molti scontano una incomprensibile pena anticipata, quale che sia poi la sentenza che li raggiungerà; l’altro è invece il tasso di recidiva, che tanto più si abbassa quanto più i condannati si trovino a essere coinvolti in percorsi di reinserimento sociale. […] Ma voi avete mai ascoltato l’attuale Guardasigilli, Alfonso Bonafede (o il ministro dell’Interno Salvini, che tanto si occupa di sicurezza e che alla diminuzione dei reati dovrebbe tenere particolarmente), sottolineare con enfasi, in un discorso pubblico, l’importanza di migliori condizioni di vita in carcere, o magari insistere sul reinserimento sociale dei reclusi?

 

Io no. Casomai mi succede di ascoltare il contrario. Io vedo che nell’ambito della riforma dell’ordinamento penitenziario (varata dal precedente governo), l’attuale Esecutivo ha ritenuto di non esercitare un buon numero di deleghe ricevute dal Parlamento, e tra esse, ha lasciato cadere in particolare quella relativa alle modalità di accesso alle misure alternative, in vista di una loro più ampia applicazione. Non se ne fa più nulla, insomma.

  

Per soprammercato, capita di leggere sul maggior quotidiano del paese, a firma di uno dei suoi editorialisti più illustri, Ernesto Galli della Loggia, una preoccupata analisi della distanza tra popolo ed élites, dove tra i rimedi indicati per riavvicinare i cittadini alle istituzioni compare la non irresistibile idea di rendere più marcata la presenza di giurati popolari nei tribunali. La formula “in nome del popolo”, evidentemente, non basta più: anche a Palazzo di Giustizia il popolo deve potersi far sentire direttamente, senza la mediazione di un giudice parruccone. Della Loggia spiega che l’epocale riforma avrebbe un “fortissimo significato anticastale”, e su questo ha ragione: indipendentemente da qualunque considerazione sul buon funzionamento della giustizia, sarebbe di sicuro un modo per lisciare il pelo al popolo.

  

Eppure, se uno volesse davvero dare un colpo alla “casta” dei magistrati, senza siffatte sbracature populiste, avrebbe da chiedere ben altro, in un’ottica liberale: la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, a cui il sindacato dei magistrati si oppone con tutte le sue forze. Ma, anche se nessuno oggi ne parla, è evidente che non c’è modo migliore per assicurare terzietà al giudice (si rilegga il prologo in cielo), per rafforzare la sua posizione di imparzialità nel processo, per garantirgli quella distanza da cui soltanto può provenire un verdetto improntato a giustizia.

  

Ai magistrati chiediamo ormai non di pronunciare un verdetto secondo giustizia, ma di dimostrare la verità-che-io-so e che tutti sanno: che lo stato non funziona, che i politici sono tutti corrotti, che la mafia inquina il tessuto democratico di intere regioni del paese. Noi lo sappiamo senza indizi né prove: non ne abbiamo bisogno

8. Invece ci azzuffiamo sulla riforma delle intercettazioni, la riforma della prescrizione, la riforma del codice antimafia. I problemi della giustizia italiana sono, anzitutto, di ordine amministrativo, ma far funzionare gli uffici significa cambiare la geografia dei poteri, dentro la magistratura e nei suoi rapporti con il resto della società, ed è per questo che è difficilissimo fare riforme davvero incisive. Invece di tutto ciò, il tema dominante diventa l’efficacia dell’azione repressiva, perché è quello che chiede il popolo. E azione repressiva significa pubblico ministero, il quale finisce col rappresentare agli occhi dell’opinione pubblica l’intero mondo della giustizia. Fateci caso, infatti: chi sono i magistrati famosi, quelli che diventano star mediatiche? Non i giudici, ma i pubblici ministeri. E perché questo accade, se non perché è lui, l’accusatore, il più vicino alla verità-che-io-so e che tutti sanno? Così vicino che quando capita che un tribunale smentisca le tesi dell’accusa si rimane increduli. E invariabilmente si commenta: è come se la vittima fosse stata offesa, uccisa, stuprata, una seconda volta. Un tribunale che non si mette in scia con l’accusa si fa insomma complice del delitto, anzi lo commette a sua volta.

 

Questo accade perché ai magistrati chiediamo ormai non di pronunciare un verdetto secondo giustizia, ma di dimostrare la verità-che-io-so e che tutti sanno: che lo stato non funziona, che i politici sono tutti corrotti, che la mafia inquina il tessuto democratico di intere regioni del paese. Noi lo sappiamo senza indizi né prove: non ne abbiamo bisogno. Ai magistrati chiediamo di trovarli, questi indizi e queste prove, per incastrare finalmente colpevoli della cui colpevolezza siamo già convinti. Come diceva infatti Piercamillo Davigo? Tra i politici non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora scoperti: eccola, la verità-che-io-so, la verità che tutti sanno e che sta alla base dell’intero ciclo della Seconda Repubblica, da Tangentopoli in poi, il sapere di cui si nutre l’ethos pubblico e che esercita una pressione deleteria sulle strutture liberali dello stato democratico.

 

Quale meraviglia se allora la prescrizione significa solo che il colpevole la fa franca, l’intercettazione che devo dare modo al magistrato di beccarti e il codice antimafia che parlare di diritti e garanzie per un mafioso è moralmente indecente? Così il cerchio si chiude, e il populismo nell’ambito della legislazione penale contribuisce a sfigurare irreparabilmente lo stato di diritto.

  

9. Ma dove si dovrebbe trovare lo stato di diritto coi suoi lineamenti liberal-democratici? Angelo Panebianco gli ha trovato un’ottima collocazione: a metà strada fra il panpoliticismo delle democrazie illiberali e il pangiuridicismo delle democrazie giudiziarie: “Concretamente, se nella democrazia illiberale è un delitto di lesa maestà contrapporsi al governo, nella democrazia giudiziaria lo è contestare le decisioni dei magistrati”. I due estremi però si tengono, e a tenerli insieme è, manco a dirlo, il populismo. Perché in un caso e nell’altro ciò che viene messo sotto tutela è la politica – nella sua forma rappresentativa e nella sua articolazione partitica. La politica o la fa direttamente il popolo, o è meglio che tolga il disturbo. E chi meglio dei magistrati può servire allo scopo?

 

La domanda spero suoni retorica: vorrebbe dire che non siamo ancora arrivati al punto in cui la patente di legittimità fornita da un giudice è superiore alla legittimazione democratica rilasciata da un voto. Ma siamo però al punto in cui ci chiediamo se quel giusto mezzo in cui si situano le moderne democrazie possa resistere agli assalti che accendono le cronache politiche. Assalti che, siatene certi, verranno condotti in nome del popolo italiano, in nome della giustizia, in nome della verità-che-io-so, che ciascuno ritiene di sapere. Nulla di più nobile, ma nulla anche di più lontano da un’effettiva architettura giuridica liberale.

Di più su questi argomenti: