Il ministro dell'Interno Matteo Salvini a Termoli (LaPresse)

Con i “maggiori poteri”, i danni del populismo possono anche moltiplicarsi

Elsa Fornero

La deformazione dei fatti che diventa regola e l’economia che diventa più fragile. Come valutare l’anno orribile del governo

Per una valutazione equilibrata dell’esperienza del governo Conte occorre astenersi dal pregiudizio, dal risentimento e dal sarcasmo che hanno caratterizzato il forte deterioramento della discussione politica nell’ultimo anno. E occorre partire dalla constatazione che i risultati elettorali del 2018 hanno rivelato un livello insospettato di sofferenza sociale e di aspettative deluse, di cui questo governo è conseguenza. La sua nascita ha mostrato chiaramente la gravità dei malesseri di lungo periodo del nostro paese di cui la crisi demografica, l’assenza di crescita economica e la perdita di valori civili e umani sono desolante espressione. 

 

Con i suoi provvedimenti il governo giallo-verde non ha però contribuito a curarli e con i suoi comportamenti li ha anzi spesso aggravati: dal divario tra le cose annunciate e quelle fatte all’irriverenza istituzionale; dalla ricerca continua di capri espiatori all’uso spregiudicato e volgare del linguaggio, con la punta massima (finora) rappresentata dal comizio con cui Salvini ha aperto la sua (ennesima) campagna elettorale due giorni fa a Pescara.

 

Con il governo Conte, l’annuncio di un provvedimento è stato normalmente identificato, ancor prima dell’approvazione parlamentare, con la soluzione di un problema “degli italiani”, come quando un Di Maio trionfante, e privo di senso del ridicolo, annunciò dal balcone di Palazzo Chigi, il 28 settembre dell’anno scorso, “abbiamo abolito la povertà”, dopo che il governo aveva approvato il reddito di cittadinanza. I mesi successivi hanno dimostrato come tale misura, pur buona nelle intenzioni, sia soltanto un tentativo limitato e molto problematico per affrontare la povertà e, insieme, la disoccupazione. Forse sarebbe stato meglio partire da quanto avevano già fatto i governi precedenti con il reddito di inclusione ma, in nome del cambiamento, “quelli di prima” sono stati costantemente demonizzati. Ancor peggio “quota 100”, annunciata come “abolizione” della riforma Fornero e realizzata come finestra temporanea per il pensionamento anticipato di un ristretto numero di italiani, indipendentemente dalla diversità delle loro situazioni personali e occupazionali. Tale misura, finanziata a debito, è apparsa fin da subito come “mancia elettorale” così come i condoni e come il progetto, mai presentato in dettaglio, della “flat tax” (imposta che non è, e non può essere, “piatta” cioè proporzionale e non progressiva).

 

Non si può poi trascurare la crescente irriverenza istituzionale che ha portato Salvini, pochi giorni fa, a dichiarare che dell’opinione del suo Presidente del Consiglio gli importava “meno di zero” e a invadere sempre più le competenze altrui, per esempio con dichiarazioni inopportune di politica estera o con la convocazione delle parti sociali su temi di competenza del Ministro del Lavoro o del Governo nel suo insieme. Più in generale, la marginalizzazione del Parlamento, con la riduzione, tra l’altro, dei tempi di discussione, mostra come questioni di pura forma possano condurre a una trasformazione occulta dell’assetto di governo del paese. In questo senso, è certo apprezzabile il sussulto di Conte quando dichiara che non è Salvini a decidere tempi e modalità della crisi, ma è un sussulto tardivo dopo gli innumerevoli “insulti istituzionali” che ha subito e tollerato. 

 

Va poi sottolineata la crescente volgarità del dibattito al livello governativo che ha il suo epicentro proprio in Salvini, nei cui discorsi le parolacce e gli insulti sostituiscono le idee (sempre soltanto abbozzate). Modi e linguaggio hanno dato il peggio di sé nel comizio di Pescara, quando il vicepremier ha più o meno ingiunto ai parlamentari di “alzare il c…” per venire subito a votare la sfiducia al governo e quando ha invocato i pieni poteri per sé. Sono sempre più frequenti le aggressioni verbali, alla ricerca del boato di approvazione da parte dei suoi sostenitori, come il suo riferimento alle “lauree immeritate” della sottoscritta, una meschinità meritevole di querela.

 

Se in mezzo a queste macerie ci fossero risultati concreti si potrebbe anche accettare l’imbarbarimento dei comportamenti. E invece, proprio sul piano della “vita vera” degli italiani, l’azione del governo ha accelerato il declino economico dell’Italia – basta un’occhiata ai dati congiunturali a dimostrarlo. Più che il blocco di fatto degli investimenti pubblici e di assunzioni indispensabili nel settore pubblico, sono i danni di lungo periodo a preoccupare: qualche segnale positivo nel settore privato e la sostanziale tenuta dei consumi delle famiglie – c’è da incrociare le dita e augurarsi che questa tendenza continui – non bastano a invertire la conclusione che l’egoismo di questa classe politica trova riscontro nell’egoismo economico sempre più frequente negli italiani, che porta i giovani a cercare lavoro all’estero mentre si impedisce ai giovani non europei di entrare in Italia. 

 

Anche qui, la deformazione dei fatti è diventata la regola: tutta l’attenzione si concentra sui “barconi”, specie quelli delle ONG con un accanimento denso di cattiveria da parte di chi si definisce “cristiano” per attirare consensi, mentre dileggia i simboli religiosi si dimenticano le piccole imbarcazioni che continuano ad arrivare sulle nostre coste e per questo il numero dei migranti irregolari è certamente più alto, forse molto più alto, di quello che emerge dai discorsi del ministro dell’Interno.
Questo governo, insomma, è come un bubbone scoppiato. Solo dopo lo scoppio si potrà cominciare a rendersi davvero conto dei danni che ha provocato, peggiorando il declino del Paese. Danni che, specie se misurati sul lungo periodo, sono davvero molti ma che sarebbero anche maggiori se chi li ha in gran parte provocati avesse i poteri che oggi invoca.