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Voglia di mafia

Ermes Antonucci

Anche al processo Black Monkey cade l’accusa di “associazione”. L’antimafia militante non ci sta

Roma. La settimana scorsa, la Corte d’appello di Bologna ha fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso nel processo di secondo grado denominato “Black Monkey”, il primo grande processo per mafia in Emilia Romagna. L’inchiesta, coordinata dalla Dda di Bologna, era esplosa nel 2013 e ipotizzava l’esistenza di un’associazione mafiosa guidata da Nicola Femia (originario di Marina di Gioiosa Ionica e in passato fedelissimo del boss della ’ndrangheta Vincenzo Mazzaferro) che faceva profitti con il gioco d’azzardo web illegale e slot machine truccate, grazie all’impiego di schede contraffatte (chiamate appunto Black Monkey), che consentivano di dichiarare solo una parte dei soldi giocati ai Monopoli di stato.

 

 

L’attività illegale messa in piedi da Femia si sarebbe fondata anche su riciclaggio, intestazione fittizia di beni, corruzione, estorsioni e minacce, con il ricorso a esponenti della camorra e della ’ndrangheta. Nel corso delle indagini, inoltre, era anche stata intercettata una telefonata tra Femia e il suo sodale Guido Torello, in cui quest’ultimo minacciava (“Gli sparo in bocca e la finiamo qua”) il giornalista dell’Espresso Giovanni Tizian, che all’epoca sulla Gazzetta di Modena si era occupato proprio delle attività criminali di Femia.

 

Se in primo grado, nel febbraio 2017, il tribunale di Bologna aveva condannato i 23 imputati a quasi 170 anni di carcere complessivi (26 anni e 10 mesi per Femia), riconoscendo per la prima volta l’esistenza di un’associazione di tipo mafioso, le cose sono cambiate in secondo grado. Per i giudici della Corte d’appello di Bologna, infatti, quella messa in piedi da Femia non è stata un’associazione mafiosa, ma un’associazione a delinquere semplice, che ha adoperato in alcune circostanze il metodo mafioso. Ne è conseguita una diminuzione delle pene inflitte agli imputati, a partire proprio da Femia (16 anni).

 

 

La pronuncia della Corte d’appello di Bologna, giunta a pochi giorni dalla clamorosa bocciatura del processo Mafia Capitale da parte della Cassazione, ha scatenato una nuova ondata di polemiche del fronte dell’antimafia militante e politico-editoriale. “Come per la sentenza della Corte di Cassazione che ha decretato l’inesistenza del 416 bis per il processo Mafia Capitale, così per il processo d’appello Black Monkey rispetto la sentenza, ma mantengo dubbi e inquietudine”, ha per esempio dichiarato Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia. “Non sarebbe mafia, ancora una volta. Semplice associazione a delinquere. Mi auguro che sia così, che le ’ndrine non abbiamo i loro tentacoli in questo mondo, che non ci sia mafia. Sarebbe solo crimine semplice, ma stento a crederlo”, ha aggiunto l’esponente del M5s. Anche l’Espresso ha criticato la bocciatura dell’ipotesi mafiosa da parte dei giudici: “Una formula tranquillizzante per l’Emilia Romagna, che potrà essere usata dai più scettici per affermare che avevano ragione loro, che qui la mafia non c’è, non è radicata. Che in fondo è solo questione di delinquenza comune”.

 

 

In realtà, nessuno sta sostenendo che la mafia in Emilia Romagna non esista. La sentenza di primo grado del maxi processo Aemilia ha certificato la presenza della ’ndrangheta nella regione, con condanne complessive a oltre 1.200 anni di carcere per 118 imputati, e nulla sembra far pensare che l’impianto accusatorio possa cedere nei giudizi successivi.

 

Peraltro, come abbiamo specificato, nella vicenda Black Monkey la Corte d’appello di Bologna ha soltanto negato l’esistenza di un’associazione mafiosa vera e propria, ma ha riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso. La stessa valutazione era stata alla base delle condanne per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato (nel disinteresse generale). Il punto è che esiste una netta differenza tra un’associazione mafiosa in senso proprio, che impone in una comunità la sua forza di intimidazione e si avvale dell’assoggettamento e dell’omertà che ne derivano, e un’associazione criminale che invece ricorre occasionalmente a metodi mafiosi per svolgere le sue attività illecite, le sue estorsioni e le sue minacce. In questo secondo ambito ricade, secondo i giudici d’appello, l’associazione al centro del processo Black Monkey (e nulla esclude che in Cassazione il verdetto possa essere ribaltato nuovamente). A qualcuno, però, il riconoscimento dell’aggravante mafiosa non sembra bastare. Occorre necessariamente affibbiare l’etichetta della “associazione mafiosa”. Forse per poter continuare a pubblicare inchieste, libri e film sulla mafiosa Emilia Romagna.

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