Maxiprocesso al pentito di mafia Gaspare Spatuzza nella “maxiaula 1” del Palazzo di giustizia di Torino, nel 2009 (LaPresse)

Trattativa, di romanzo in romanzo

Riccardo Lo Verso

L’ultimo pentito annuncia verità sconvolgenti. E’ l’inizio di un nuovo capitolo per i professionisti dell’Antimafia

Nella corale dell’antimafia si fa avanti un personaggio, Pietro Riggio. E’ un nuovo strumento di scena. Tutt’altro che di primo pelo, il pentito nato a Resuttano, in provincia di Caltanissetta, è piuttosto navigato. Faceva l’agente di polizia penitenziaria, poi l’hanno arrestato per mafia ed estorsione. Collabora dal 2009, ma ha storie nuovissime da raccontare.

 

Dalla palude dei suoi ricordi, un anno e mezzo fa – del verbale si è saputo nelle scorse settimane – è venuta fuori la storia di un misterioso ex poliziotto che avrebbe imbottito di tritolo l’autostrada per fare saltare in aria, a Capaci, il giudice Giovanni Falcone.

 

E’ come un provino, una audition – forse è meglio usare la terminologia da talent show – nel corso della quale Riggio ha a disposizione il tempo di riempire un verbale per farsi notare. E lui non tradisce le aspettative. La trama dei suoi ricordi si popola di sbirri infedeli, carabinieri infami, agenti segretissimi, uomini senza volto e gente in carne e ossa che, però, non potrà mai smentirlo perché è morta. 

 

Anche Riggio, come tanti altri, è rimasto in silenzio per un decennio. Un bel giorno di giugno 2018, alla soglia dei 55 anni, ha sentito forte l’esigenza di parlare con i magistrati. Sono andati a interrogarlo i pubblici ministeri Gabriele Paci e Luca Turco, delle procure di Caltanissetta e Firenze, competenti quando si indaga sulle stragi di mafia.

 

Dalla palude dei suoi ricordi è venuta fuori la storia di un misterioso ex poliziotto che avrebbe imbottito di tritolo l’autostrada a Capaci

Riggio tradisce subito la sua ambizione. Al legittimo dubbio dei magistrati – perché parla solo adesso? – risponde dicendo di avere avuto “paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia”. Ora però “secondo me, se ne può parlare”. Perché mai, qual è il vento nuovo che soffia sulla giustizia italiana e spazza via ataviche paure? “E’ come se questo potere occulto sia traballato, sia venuto meno e quindi è un momento che la verità deve venire per forza a galla”, dice il pentito. I pubblici ministeri lo incalzano, gli chiedono “sulla base di quali fatti può dedurre che questo sia venuto meno?”. Fatti non suggestioni. Riggio svela infine il palcoscenico che intende calcare, spiega che “il fatto principale è stato la sentenza di Palermo. Per me era impensabile. Io quando ho sentito la sentenza non ci credevo”.

 

Il riferimento è al verdetto di primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia che ha dato fiato alla sua memoria. Il pm Turco prova ad arginarla: “Riggio, però, quando lei scrive alla Procura di Firenze, la sentenza di Palermo ancora non c’è stata”. La premessa della storia, infatti, sono le lettere con cui il collaboratore di giustizia ha invocato la sua audizione. E sono tutte antecedenti alla sentenza sulla Trattativa emessa nell’aprile 2018. A Riggio tocca correggere il tiro: “Io l’avevo già maturata l’idea di parlare, di riferire, però dopo quello che è successo ancor di più ho preso coscienza che questa cosa doveva avvenire”.

 

Riggio spariglia le carte, indossa il vestito più bello e tenta di ritagliarsi uno spazio importante nella sceneggiatura antimafia

Nessun dubbio: è il contesto della Trattativa il terreno su cui Riggio intende seminare i suoi flashback. Non gli è bastato il palcoscenico del processo ad Antonello Montante, potente uomo della Confindustria siciliana e nazionale condannato ad una pena pesantissima per avere organizzato, tra le altre cose, una rete di spioni al suo servizio. Da Montante Riggio riferì, tra le altre cose, di avere saputo, alla fine degli anni Novanta, che c’era un’inchiesta sulla famiglia del vecchio padrino nisseno, Piddu Madonia. 

 

I verbali di Riggio sono stati acquisti al processo bis sulla strage di Capaci. Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ha già portato all’apertura di un’inchiesta per strage a carico dell’ex poliziotto piazzato dal pentito a Capaci con il compito di imbottire di tritolo il cunicolo sotto l’autostrada.

 

Un ruolo che spiazza per primi gli investigatori e i magistrati. Se fosse vero bisognerebbe buttare nella spazzatura la convinzione, raggiunta a fatica e sempre confermata dai pubblici ministeri di Caltanissetta, che la fase esecutiva della strage fu opera esclusiva della mafia.

 

Riggio spariglia le carte, indossa il vestito più bello e tenta di ritagliarsi uno spazio importante nella sceneggiatura antimafia. Se lo Stato, con un suo poliziotto, ha assassinato Giovanni Falcone volete che non sia andata alla stessa maniera per Paolo Borsellino? Che è, guarda caso, l’impianto accusatorio del processo sulla Trattativa. Borsellino capì che pezzi delle istituzioni e alti ufficiali dell’Arma stavano siglando un patto sporco con i boss e si mise di traverso. E i corleonesi lo condannarono a morte.

 

In primo grado le pene sono state pesantissime. Il verdetto ha rimesso in piedi macerie che non sembravano ricomponibili. La Corte di assise ha demolito il teste chiave dell’accusa Massimo Ciancimino, ma è andata oltre le sue calunnie. Così come è andata oltre le due assoluzioni, quella di Calogero Mannino (scagionato in primo e secondo grado seppure alla Trattativa, secondo l’assunto accusatorio, l’ex ministro democristiano avrebbe dato il via per paura di essere ammazzato) e del generale Mario Mori nel processo sul mancato arresto di Provenzano a Mezzojuso, indicato come tassello dell’accordo Stato-mafia. E’ rimasto intonso il solo Giovanni Brusca, i cui vuoti di memoria e i ricordi improvvisi sono da sempre un tratto distintivo della sua collaborazione.

 

Riggio può diventare lo strumento di scena del nuovo romanzo criminale, il terzo, sulla Trattativa. Il primo, e cioè il fascicolo della Procura di Palermo denominato “Sistemi criminali”, naufragò nel 2001 quando il pool coordinato da Roberto Scarpinato, e di cui faceva parte anche Antonio Ingroia, ideologo della Trattativa, concluse che “non sembrano essere stati acquisiti, allo stato, elementi probatori tali da ritenere integrata la fattispecie…”. Le parole “allo stato” lasciavano aperta una strada per il futuro.

 

Si era partiti da un’informativa della Direzione investigativa antimafia del 1994 che intravedeva “una connessione tra le stragi mafiose di Capaci e via d’Amelio, con gli attentati di Firenze, Roma e Milano per la realizzazione di un unico disegno criminoso che ha visto interagire la criminalità organizzata di tipo mafioso, in particolare cosa nostra siciliana, con altri gruppi criminali in corso di identificazione”. L’ipotesi dei pm era che fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992 si svolsero riunioni fra i capi di Cosa nostra per “l’approvazione di una profonda ristrutturazione dei rapporti con la politica”. Non furono mai raccolte le prove sufficienti anche per i vuoti di memoria di Giovanni Brusca. A distanza di anni dall’inizio della sua collaborazione il boia di San Giuseppe Jato fece i nomi degli uomini chiave della stagione della Trattativa, Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Perché attese così tanto tempo? Per paura, disse pure lui.

 

Poi arrivò Massimo Ciancimino, altro attrezzo di scena con un appeal mediatico nazionale, con la storia del papello contenente le richieste di Totò Riina per fermare le stragi e mai trovato, anzi taroccato dal figlio di don Vito, e dei mille riconoscimenti farlocchi, alcuni da avanspettacolo giudiziario, del fantomatico signor Franco, presenza costante nelle fantasie di Ciancimino jr.

 

E’ rimasto intonso il solo Giovanni Brusca, i cui ricordi improvvisi sono da sempre un tratto distintivo della sua collaborazione

C’è un punto (quasi) fermo (manca il giudizio della Cassazione) nella vicenda. L’assoluzione dell’ex ministro Mannino, alla lunga, rischia di minare l’intero impianto accusatorio. Riggio potrebbe essere il traghettatore oltre il pantano giudiziario, verso un’altra verità. Non importa che sia vera, ma verosimile. Riggio è il perfetto attrezzo di scena per il terzo romanzo criminale. Ne scrive l’incipit, si candida a primo attore di un’antimafia che ha bisogno di investire in qualcuno e in qualcosa per ritornare ai fasti di una stagione perduta. La stagione dell’abbraccio fra Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, e Massimo Ciancimino, e delle prime serata televisive.

 

Riggio è l’uomo giusto, il funambolo sulla corda delle rivelazioni dai riscontri impossibili. O meglio, sono possibili solo quelli iniziali. Facile verificare che abbia detto il vero parlando della sua comune detenzione con l’ex poliziotto e presunto stragista Giovanni Peluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il resto è palude.

 

A cominciare dal ricordo di quel giorno di luglio del 1999. Andarono a prenderlo in carcere. Di corsa, a bordo di una macchina blindata e ammanettato al bracciolo dello sportello, verso la sede della Dia di Roma. Lo attendevano per un interrogatorio, ma prima dell’arrivo del magistrato di Firenze che lo aveva convocato, altri uomini, tra cui un colonnello dei carabinieri, proposero a Riggio di entrare a fare parte di una squadra di infiltrati per la cattura di Bernardo Provenzano. Di alcuni uomini in divisa il collaboratore fa i nomi. Prima o poi saranno obbligati a dare spiegazioni persino su quanti caffè presero quel giorno e con chi. Di altri uomini Riggio ricorda genericamente i tratti somatici o il colore dei capelli.

 

E poi c’era lui, il pubblico ministero di Firenze Gabriele Chelazzi, il magistrato che indagò con successo sul terrorismo e poi sulle stragi mafiose del 1993. Era stato Chelazzi a convocare Riggio alla Dia in via Cola di Rienzo per fargli delle domande sulla strage di via dei Georgofili a Firenze. “Io non so niente di queste cose, come mai mi state sentendo?”, disse Riggio che si avvalse della facoltà di non rispondere. La parte finale del suo racconto ha davvero i caratteri di una sceneggiatura. Terminato l’interrogatorio Riggio si spostò verso la finestra. “Si avvicina il dottor Chelazzi che aveva capito tutto”, lo guardò “fisso negli occhi” e disse: “Se ha problemi, parli con la Procura di Firenze. Stia attento, stia attento”. Parlava sotto voce per non farsi sentire. Chelazzi non potrà né confermare, né smentire. E’ morto tragicamente nel 2003 per un infarto. 

 

Ma chi c’è davvero dietro alle stragi? Riggio offre l’assist per andare oltre la Trattativa, per tornare a percorrere quella strada

Dopo quell’incontro Riggio avrebbe capito che la storia della squadra per stanare i latitanti era una balla. Al contrario serviva solo per acquisire notizie visto che “i carabinieri non è che lo vogliono prendere”. Tutto fu più chiaro quando Riggio ricevette una risposta a una lettera che aveva inviato a Provenzano. “Tu non devi fare il mio nome”, c’era scritto.

 

Il romanzo criminale parte da Capaci, dalla confidenza che Peluso fece a Riggio sulla sua partecipazione alla strage, e approda alla Trattativa. Provenzano, protetto e coccolato dallo Stato assassino, fece arrestare Totò Riina in cambio di un salvacondotto.

 

Ma chi c’è davvero dietro le stragi? Riggio offre l’assist per andare oltre la Trattativa, per tornare a percorrere quella strada lasciata aperta dai “Sistemi criminali”. La Procura nazionale antimafia ha convocato i pubblici ministeri delle procure di mezza Italia. Bisogna rivedere tutto, da capo. Il romanzo è in fieri.