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Quei pentiti coccolati dallo stato, condannati con lo sconto, e ora di nuovo arrestati

Riccardo Lo Verso

Blitz della squadra mobile di Messina: finiscono in carcere dei collaboratori di giustizia tornati a fare i mafiosi

Nella legislazione sui pentiti c'è più di qualcosa da rivedere. Ha ragione il procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, che si è ritrovato a indagare su un drappello di collaboratori di giustizia tornati a fare i mafiosi. Nel blitz della squadra mobile messinese ne sono stati arrestati quattro. Numeri impietosi che fanno del ritorno al crimine un'abitudine alla quale lo stato non ha saputo mettere un argine. Il fatto di avere condiviso un percorso di collaborazione con la giustizia è divenuto un tratto distintivo che ha unito, ancor di più, gli arrestati di oggi.

 

Il personaggio chiave dell'inchiesta è Nicola Galletta. Lo hanno arrestato nella sua abitazione dove stava scontando una condanna all'ergastolo per omicidio. Un killer ai domiciliari: lo prevede la premialità riservata a chi tradisce il giuramento di fedeltà a Cosa Nostra. Così come è prevista la “capitalizzazione” di cui ha usufruito un altro degli arrestati, Salvatore Bonaffini.

 

La "capitalizzazione" è una sorta di buonuscita elargita ai collaboratori che smettono così di incassare lo “stipendio mensile”. La somma di denaro deve servire a raggiungere l'autonomia economica. I controlli, però, stando all'inchiesta (il principio di non colpevolezza vale per tutti) hanno fatto acqua.

 

I pentiti si sono misurati – solo il blitz di oggi ha cambiato il corso delle cose - con uno stato fin troppo magnanimo che ha chiuso un occhio. È vero, infatti, casellario giudiziale alla mano, che alcuni degli indagati di oggi, anche dopo essere stati ammessi al programma di protezione, hanno tenuto comportamenti tutt'altro che esemplari. Li hanno sorpresi a spacciare, in casa loro sono state trovate armi, si è scoperto che avevano distrutto le scritture contabili delle aziende, nel caso di Bonaffini si trattava di una impresa edile, grazie alle quali dicevano di volere vivere onestamente. Eppure lo stato li ha premiati e coccolati in nome di una lotta alla mafia che per tanti anni si è basata, quasi esclusivamente, sul pentitismo. Sono stati i collaboratori, infatti, a guidare le indagini, infarcendo di bugie i loro resoconti.

 

Il dibattito, nelle scorse settimane, si è acceso quando è stata negata a Giovanni Brusca la possibilità di finire di scontare la sua pena a casa. Secondo la Cassazione, non è completo il ravvedimento del boia di San Giuseppe Jato, capace anche di strangolare un bambino quale era Giuseppe Di Matteo.

 

Ravveduti, invece, erano considerati i collaboratori arrestati oggi. E invece in pochi anni si sarebbero ripresi il posto di comando. La collaborazione sarebbe stata solo una parentesi nella loro carriera criminale. Su tutti, Galletti, che dirigeva le operazioni dalla sua abitazione. Era già accaduto qualche anno fa con Nino Rotolo, padrino ergastolano della vecchia mafia palermitana, quella spazzata via dalle indagini, che si era finto malato per andare a casa e all'interno di un box in lamiera attiguo alla sua villa convocava boss e picciotti per dettare gli ordini. Rotolo non si è mai pentito. Galletta e gli altri sì.

 

Ha ragione De Lucia. Sarebbe opportuno rivede la legislazione sui pentiti. La paura della stangata giudiziaria, prevista dalla legge, evidentemente non è stata sufficiente a scoraggiare il ritorno alle vecchie, e pessime, abitudini.

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