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Il processo infinito, un'ingiustizia per tutti

Ermes Antonucci

Con l’inizio del nuovo anno entrerà in vigore la riforma che abolisce la prescrizione dopo una sentenza di primo grado. Storie esemplari di persecuzioni giudiziarie e lentezza del sistema ce ne indicano le possibili conseguenze

Tra poche ore, con l’inizio del nuovo anno, entrerà in vigore la riforma che abolisce la prescrizione dopo una sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di assoluzione. La riforma, fortemente voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (e approvata in Parlamento dal Movimento 5 stelle e dalla Lega ai tempi del governo gialloverde), trasformerà i processi in persecuzioni potenzialmente infinite: qualsiasi cittadino potrà restare in balia della giustizia italiana per 20, 30, persino 50 anni, o anche per tutta la vita, con effetti devastanti sul piano personale, familiare, economico e sociale. Questo varrà non solo per gli imputati, ma anche per le vittime dei reati e le parti civili. Insomma, un fallimento a 360 gradi della giustizia, in cui perdono tutti, ma anche un fallimento dal punto di vista della logica legislativa, se si considera che nel 75 per cento dei casi la prescrizione dei reati matura prima di una sentenza di primo grado, a causa delle inefficienze del sistema giudiziario.

 

I nuovi alleati di governo del M5s, cioè il Partito democratico, Italia viva e Liberi e uguali, hanno accettato supinamente la volontà dei grillini di non rinviare l’entrata in vigore della riforma, nella convinzione che i suoi effetti devastanti si manifesteranno solo tra qualche anno, rendendo possibile approvare nel frattempo una legge che possa velocizzare i tempi del processo. Una bufala clamorosa: basterà infatti un processo per direttissima e una sentenza emessa per fatti compiuti dopo il 1° gennaio 2020 per vedere applicata immediatamente la nuova norma sulla prescrizione e vedere iniziare un processo eterno. D’altronde, la lentezza della giustizia italiana è nota: già oggi vengono presentate ogni anno circa 17 mila richieste di indennizzo per violazione dei termini stabiliti dalla legge Pinto per la ragionevole durata dei processi (tre anni per una sentenza di primo grado, due anni per l’appello e un anno per il grado di legittimità).

   

La riforma, più che da un’ignoranza di fondo del ruolo e del significato dell’istituto della prescrizione nel nostro ordinamento, sembra nascere proprio da una mancata consapevolezza dei danni devastanti che il processo eterno può causare sulla vita delle persone. E pensare che anche il 2019, come gli ultimi anni, ci ha consegnato una serie incredibile di flop giudiziari e di processi lunghissimi.

  

Lo scorso luglio, ad esempio, è stato di nuovo assolto Calogero Mannino, al centro di una persecuzione giudiziaria che dura ormai da 28 anni. Esponente di spicco della Democrazia cristiana e cinque volte ministro nella Prima Repubblica, Mannino è stato assolto in appello nel processo sulla cosiddetta “trattativa stato-mafia”. La sentenza di appello, pur essendo il processo in rito abbreviato, è arrivata dopo sette anni. Ma la vicenda non è ancora finita e continua a palesare tutta la schizofrenia della giustizia italiana. Se infatti Mannino è stato assolto due volte dall’accusa di aver dato input ai contatti tra i carabinieri del Ros e Cosa nostra negli anni delle stragi, nel filone principale del processo quei carabinieri del Ros (Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni) sono stati condannati in primo grado proprio per aver portato avanti la presunta trattativa, insieme all’ex senatore Marcello Dell’Utri, i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà e Massimo Ciancimino. Nel 2010, invece, è finito con una sentenza definitiva della Cassazione l’altro calvario giudiziario di cui Mannino è stato vittima per ben 19 anni, con al centro l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Un’accusa infamante per chi, durante le elezioni del 1991, da responsabile politico della Dc in Sicilia, contrastò apertamente la mafia, tanto da tappezzare la regione con dei manifesti con su scritto “Contro la mafia, costi quel che costi”. Eppure nel 1995 la procura di Palermo, guidata da Giancarlo Caselli (supportato dai sostituti Vittorio Teresi e Teresa Principato) chiese e ottenne per Mannino persino l’arresto. L’ex deputato Dc trascorse nove mesi in carcere e altri tredici mesi agli arresti domiciliari. La detenzione sconvolse la salute fisica e psichica di Mannino, che arrivò a perdere addirittura venti chili. Quindici anni di sofferenze dopo, nel 2010, Mannino venne assolto in via definitiva da tutte le accuse, al termine di un processo a dir poco tortuoso: assoluzione in primo grado, condanna in appello, annullamento della condanna in Cassazione, assoluzione nel nuovo appello, assoluzione definitiva in Cassazione.

 


La lentezza della giustizia italiana è nota: già oggi vengono presentate ogni anno circa 17 mila richieste di indennizzo per violazione dei termini stabiliti dalla legge Pinto per la ragionevole durata dei processi. Mannino al Foglio: “I miei avvocati non hanno mai chiesto un rinvio, eppure i processi si sono presi 28 anni della mia vita”


 

Nel 2008 il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, nel chiedere l’assoluzione nei confronti di Mannino, definì la precedente sentenza di condanna “un esempio negativo, da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta”. Quando nel 2015 venne assolto nel processo di primo grado sulla trattativa, il giudice dell’udienza preliminare di Palermo, Marina Petruzzella, parlò di “prove inadeguate”, “suggestiva circolarità probatoria”, “interpretazioni di colpevolezza indimostrate”. Difficile parlare di vittoria, dopo che si è stati vittime del tritacarne mediatico-giudiziario per oltre un quarto di secolo e a causa di processi che non avrebbero dovuto neppure cominciare.

 

“Si sono portati via la mia vita. Quella di processato in aeternum è un’esperienza drammatica e inenarrabile. Non ci sono neanche mezzi espressivi sufficienti per rappresentare la realtà drammatica di questa condizione”, dichiara Mannino al Foglio. “I miei avvocati non hanno mai chiesto un rinvio delle udienze per una qualsiasi ragione, eppure i processi si sono presi ventotto anni della mia vita”.

 

E’ inevitabile pensare a quanti altri casi Mannino potrebbero accadere con l’abolizione della prescrizione. “Aver modificato ulteriormente la prescrizione è un errore che deriva dalla dominanza di un pensiero giustizialista, che manca di considerare la realtà del processo nel suo complesso – spiega Mannino – Ad esempio la fase preliminare, chiamata istruttoria, non finisce mai. Quando il processo comincia il tribunale non si trova delle bocce ferme, ma si trova molte bocce che corrono e che sono nelle mani esclusive del pubblico ministero. Si tratta di un meccanismo perverso, che ha trasferito il processo dall’aula del tribunale all’ufficio del pm, il dominus assoluto del processo. Riformare la prescrizione senza considerare questi aspetti è un grandissimo errore. Il risultato sarà che i processi avranno una durata ancora più lunga, perché quando il pubblico ministero saprà di poter contare su termini di prescrizione più lunghi utilizzerà ancora più discrezionalmente il tempo che gli è riservato per la sua istruttoria”.

 

“Anziché evocare la mia triste esperienza di uomo in attesa di giudizio – conclude Mannino, che ad agosto ha compiuto ottant’anni – vorrei quindi richiamare su questi aspetti l’attenzione di tutti, anche del legislatore, che non avrebbe dovuto lasciare passare questa riforma solo perché un ministro della Giustizia, che non ha nessuna esperienza di aule giudiziarie, ha voluto avventurarsi sull’eccitazione di alcuni organi di stampa amici”.

 

Il 2019 è stato anche l’anno di Antonio Bassolino, sindaco di Napoli dal 1993 al 2000, poi ministro del primo governo D’Alema e presidente della Regione Campania per dieci anni, dal 2000 al 2010. Lo scorso maggio si è concluso definitivamente il processo in cui, insieme ad altri ventisei imputati, era accusato di irregolarità nella gestione dei rifiuti in Campania, compiute durante l’emergenza commissariale. A tutti gli imputati erano state contestate presunte responsabilità riguardo anomalie e inadempienze nel contratto di gestione del ciclo dei rifiuti, stipulato tra il commissario straordinario – carica ricoperta da Bassolino dal 2000 al 2004 – e la società Fibe-Impregilo. La vicenda giudiziaria è durata la bellezza di 16 anni.

 

Le indagini, iniziate nel 2003, avevano portato a una prima sentenza di assoluzione nel 2013. Essendo trascorsi dieci anni, i reati erano finiti in prescrizione, ma i giudici del tribunale di Napoli, anziché prendere atto della prescrizione, avevano assolto Bassolino nel merito, smontando l’intero impianto accusatorio. Non pago, il pm aveva quindi presentato ricorso in appello. Dopo altri sei anni, lo scorso maggio, la Corte d’appello di Napoli ha dichiarato inammissibile il ricorso del pm, facendo diventare definitiva l’assoluzione dell’ex governatore. In tutto sono passati 16 anni. “Il vero problema è rappresentato dai tempi del processo. Giustizia giusta significa in primo luogo tempi giusti per tutti”, dice Bassolino al Foglio. “Ho visto che ora il Partito democratico ha annunciato una sua iniziativa legislativa. Il punto fondamentale, che non bisogna smarrire e deve essere al centro dell’attenzione, è costituito proprio dai tempi della giustizia: i tempi lunghi sono un danno per le persone innocenti, così come per le persone che si sentono offese, mentre sono un vantaggio per quelle potenzialmente colpevoli”.

 

Ovviamente il problema della lentezza dei processi non riguarda solo esponenti politici. Riguarda protagonisti del mondo delle imprese, come Giulia Ligresti, assolta lo scorso aprile dopo sei anni dalle accuse di falso in bilancio e aggiotaggio nel caso Fonsai (per il quale era stata incarcerata due volte). Riguarda semplici cittadini, come Mario Capobianchi, l’unico imputato per il crollo del palazzo di via di Vigna Jacobini avvenuto a Roma il 16 dicembre 1998 dove morirono 27 persone. Due mesi fa è stato assolto dalle accuse di disastro colposo e omicidio colposo plurimo dopo un processo durato vent’anni, con due sentenze annullate in Cassazione.

 

Ma i processi eterni riguardano paradossalmente anche ex ministri della Giustizia, come Clemente Mastella, assolto quindici volte su quindici, incluso il caso che nel 2008 lo costrinse alle dimissioni da ministro e che contribuì alla caduta del governo Prodi. La vicenda giudiziaria, incentrata su presunte pressioni esercitate per le nomine nella sanità, e che coinvolse anche sua moglie Sandra Lonardo, si è chiusa con l’assoluzione di fronte al tribunale di Napoli nel 2017: la sentenza (di primo grado) è arrivata dopo ben nove anni. Nel frattempo, però, la vita di Clemente Mastella e della sua famiglia è stata stravolta. “Le notizie ottengono grande evidenza e rumore pubblico quando sei sottoposto al giudizio, anche se improprio e improvvido, di alcuni pm, ma emergono in maniera molto più dimessa quando sei assolto, quasi in retropagine, che consolano soltanto i tuoi parenti e qualche amico più intimo”, afferma al Foglio Mastella, oggi sindaco di Benevento. “Quando si è travolti da questi casi, si è soliti sottolineare la propria fiducia nella giustizia. Certo che crediamo nella giustizia, ma intanto magari ti dimetti per poterti difendere con tranquillità. Io facevo il ministro e dopo l’assoluzione non ho mica recuperato quello che ho perso. Non c’è mica una legge, come quella che riguarda ad esempio la pubblica amministrazione, secondo cui se vieni dichiarato innocente vieni reintegrato e recuperi gli anni persi. Io sono stato costretto a dimettermi da ministro e non ho recuperato niente”.

 


Clemente Mastella (foto LaPresse)


 

Sul terreno non restano solo le ripercussioni sul piano professionale e le ingenti spese economiche (soprattutto legali), ma anche le sofferenze umane e familiari. In alcuni casi vere e proprie umiliazioni, come quando a Mastella fu negato dal questore l’imbarco per un volo per gli Stati Uniti per le vacanze natalizie, o quando la moglie (a cui era stato imposto il divieto di dimora in Campania) fu scortata dai carabinieri fin dentro la sala operatoria di un ospedale. “Mi sono reso conto pure di aver subito un piccolo infarto, senza saperlo – aggiunge Mastella – Perché la vicenda giudiziaria ti corrode dentro. Sei innocente e vieni guardato in maniera sospettosa, anche dagli amici. Tutto questo crea problemi enormi sul piano personale, che non ripaga nessuno”.

 

Eppure, uno dei successori di Mastella (l’attuale Guardasigilli Alfonso Bonafede) ha pensato bene di istituzionalizzare il processo eterno. “Della riforma della prescrizione penso tutto il peggio possibile – dichiara Mastella – La prescrizione imponeva persino ai pm che conducono inchieste in maniera pregiudizievole di accorciare i tempi e di rendere il processo un po’ meno illimitato, perché se fosse arrivata la prescrizione avrebbero fatto un buco nell’acqua. Nel mio caso, il processo sarebbe stato infinito e sarei ancora sotto le macerie di questo terremoto. La remissività del Pd, che abiura a principi che legittimano la Costituzione e la persona umana come cittadino, è politicamente disdicevole. Altro che sardine, per risvegliare il Pd occorrerebbero le orche”.

  

Ci sono poi quei cittadini che, pur di veder riconosciuta la propria innocenza, hanno deciso di rinunciare alla prescrizione affidandosi alla giustizia italiana, ma in cambio di questa fiducia si sono ritrovati impelagati in processi infiniti. Ne sa qualcosa Marco Tronchetti Provera, vicepresidente esecutivo e amministratore delegato di Pirelli, da quindici anni al centro di una vicenda giudiziaria che farebbe impallidire Franz Kafka. Il caso risale al 2004, quando Tronchetti era presidente di Telecom Italia, e si colloca all’interno della contesa per il controllo di Telecom Brasil. L’allora presidente di Telecom Italia giunse allo scontro con l’allora gestore del fondo Opportuniy (azionista di controllo di Telecom Brasil), Daniel Dantas, e l’ex presidente di Telecom Brasil Carla Cico. I due rivali carioca incaricarono l’agenzia investigativa Kroll di portare avanti un’attività di spionaggio nei confronti di Telecom Italia e soprattutto dell’allora presidente Tronchetti Provera. Il team di spioni venne a sua volta intercettato dalla squadra di sicurezza interna dell’azienda, guidata da Giuliano Tavaroli. Il capo della security e gli avvocati di Telecom Italia consegnarono, così, a Tronchetti Provera un cd contenente le prove dell’attività di spionaggio compiuta dall’agenzia Kroll nei suoi confronti su mandato dei rivali brasiliani. Il manager diede disposizione di presentare denuncia in procura, non sapendo che le informazioni erano state ottenute in maniera illecita con un’attività di contro-spionaggio. Così, Tronchetti si è ritrovato coinvolto in un’inchiesta per ricettazione che si trascina da oltre quindici anni e che ha portato a ben sei processi. Condannato in primo grado, Tronchetti Provera è stato assolto due volte in appello, sentenze entrambe annullate dalla Cassazione. Al terzo processo di appello, nel novembre 2018, il manager è stato assolto per la terza volta. E pensare che nel 2015 aveva pure rinunciato alla prescrizione per vedersi riconosciuta un’assoluzione piena.

 

Anche il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha una certa esperienza di processi eterni. Nel dicembre 2012, ad esempio, è stato assolto dal tribunale di Salerno insieme ad altre 12 persone nel processo su presunte irregolarità nella variante urbanistica che permise la delocalizzazione delle Manifatture Cotoniere Meridionali (Mcm). Pur avendo rinunciato al decorso dei termini di prescrizione dei reati (che andavano dalla truffa al falso), la sentenza di assoluzione di primo grado è arrivata dopo ben otto anni. Nel settembre 2016, in maniera ancora più incredibile, il governatore è stato assolto insieme ad altri 41 imputati dalle accuse legate alla vicenda del Sea Park, un parco marino che si sarebbe dovuto costruire a Salerno ma che poi non fu mai realizzato. L’inchiesta era stata avviata 18 anni prima (dalla stessa pm, Gabriella Nuzzi, che aveva accusato De Luca nel caso Mcm) e la sentenza di assoluzione di primo grado è giunta dopo otto anni di dibattimento. Anche in questo caso De Luca aveva rinunciato alla prescrizione. Ciò non è bastato a velocizzare i tempi della giustizia, né a impedire che contro il governatore scattasse l’infernale meccanismo della gogna mediatico-giudiziaria. Stavolta pure per mano politica: proprio a causa della vicenda Sea Park, De Luca era stato inserito – tra mille polemiche – nella lista dei cosiddetti candidati “impresentabili”, preparata dall’allora presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, prima delle elezioni regionali, che poi l’ex sindaco di Salerno avrebbe vinto comunque.

 

Ma la vittima per eccellenza del processo eterno all’italiana è sicuramente Rocco Loreto, per tre volte sindaco di Castellaneta (in provincia di Taranto) e per tre volte senatore nelle fila del Pci-Pds-Ds dal 1992 al 2001. Il 4 giugno 2001, il giorno dopo aver perso l’immunità parlamentare per l’insediamento delle nuove Camere, Loreto venne arrestato su richiesta dell’allora sostituto procuratore di Potenza Henry John Woodcock, con l’accusa di calunnia ai danni di un magistrato, il pubblico ministero di Taranto Matteo Di Giorgio, e di violenza privata nei riguardi di un imprenditore. La colpa di Loreto (che trascorse quattro giorni in carcere e undici ai domiciliari) era quella di aver presentato un memoriale al ministero della Giustizia e in seguito al Consiglio superiore della magistratura e alla procura generale della Corte di cassazione in cui si criticava proprio l’operato del pm Di Giorgio (anch’egli di Castellaneta), sostenendo che questi avesse esercitato le sue funzioni in maniera opaca e al servizio di interessi privati. Il tempo, molti anni dopo, darà ragione a Loreto: nell’agosto 2017 Di Giorgio sarà infatti condannato in via definitiva a otto anni di reclusione per corruzione in atti giudiziari e concussione. 

 

Fra le accuse contestate al pm (poi rimosso pure dall’ordine giudiziario) anche quella di aver costretto un consigliere comunale di Castellaneta alle dimissioni per provocare lo scioglimento del consiglio comunale, sotto la minaccia dell'arresto di alcuni suoi parenti. Secondo i giudici, Di Giorgio, strumentalizzando le funzioni di magistrato, aveva costruito una rete di potere per contrastare i propri avversari politici e favorire gli alleati come Italo D’Alessandro, poi eletto sindaco di Castellaneta, e anch’egli condannato in via definitiva a tre anni.

 

La verità è quindi emersa, ma troppo tardi. Dopo aver subito l’onta della carcerazione preventiva, Loreto è stato costretto a vivere un calvario giudiziario durato addirittura 17 anni. Rinviato a giudizio nel 2008, l’ex senatore ha deciso di rinunciare alla prescrizione, ma ha dovuto aspettare fino al 2017 per ottenere la sentenza di assoluzione in primo grado, poi divenuta definitiva un anno dopo perché non impugnata dalla procura. “Io sono il classico esempio di chi, rinunciando alla prescrizione, si è visto condannato a un processo interminabile, fermatosi fortunatamente al primo grado, perché non c’è stato appello né da parte del pubblico ministero né dalle parti civili. Il paradosso dei paradossi è che proprio la rinuncia alla prescrizione ha determinato un percorso giudiziario così lungo”, racconta Loreto al Foglio, spiegando anche di aver rinunciato a presentare richiesta di indennizzo per la durata irragionevole del processo: “Quando il mio avvocato mi ha informato sulla somma che avrei potuto ricevere ho deciso di non presentare richiesta, per non essere ulteriormente offeso dallo stato dopo tutto quello che avevo subito”. Loreto, però, non dimentica “il trauma che ha segnato me, la mia famiglia e anche la mia città, di cui ero sindaco, eletto per tre volte consecutive a furor di popolo”. “Ero dirigente scolastico del più grande istituto di istruzione secondaria di secondo grado della zona occidentale dell’arco ionico, frequentato da oltre un migliaio di studenti. Dopo essere stato arrestato ed essere stato buttato giù come sindaco, quando entravo nell’istituto mi sentivo gli occhi addosso, sia da parte degli alunni che dei docenti e del personale amministrativo. Nessuno aveva il coraggio, se non anonimamente, di esprimersi sulla mia vicenda tragica. Mio figlio è scappato da Castellaneta e ora è a Londra. Ci sono i danni economici, soprattutto per le spese legali, ma c’è anche la lacerazione degli affetti familiari. Ci sono danni immateriali incalcolabili”.

 

E in questo caso la vicenda ha avuto ripercussioni anche di carattere politico sull’intera città di Castellaneta: “A causa della vicenda giudiziaria il paese mi ha voltato le spalle – racconta Loreto – Dalle percentuali bulgare degli anni 90, sono passato a perdere le elezioni del 2002, del 2007 e del 2012. Mi hanno voltato le spalle anche i partiti, compresa la sinistra radicale (ex Rifondazione comunista), perché per loro ero comunque una persona sotto processo, da cui bisognava mantenere le distanze. Dopo la terza sconfitta ho detto basta e mi sono ritirato a vita privata”.

 

E’ con questa esperienza tragica nella mente che Loreto guarda all’entrata in vigore della riforma della prescrizione: “Sicuramente con l’entrata in vigore della riforma ci saranno tanti altri casi Loreto, perché i magistrati, quando vedranno che non c’è il rischio della prescrizione, daranno naturalmente precedenza ad altri processi”.

 

A pagare il prezzo di questa infausta riforma, come abbiamo sottolineato, non saranno solo gli imputati, ma anche le vittime dei reati e le parti civili. La norma, infatti, pur essendo stata ideata da Bonafede per venire incontro, in maniera populistica, alle proteste delle associazioni che riuniscono i familiari delle vittime di alcune tragedie (“La chiameremo ‘legge Viareggio’”, disse il Guardasigilli prima dell’approvazione, facendo riferimento all’incidente ferroviario del 2009), avrà come effetto proprio quello di rinviare ancora di più nel tempo l’accertamento dei fatti in sede giudiziaria. Se a ciò si aggiunge che nel 75 per cento dei casi la prescrizione dei reati matura prima di una sentenza di primo grado, e quindi prima del momento a partire dal quale si applicherà la riforma Bonafede, si può comprendere come i familiari delle vittime di alcune tragedie rischino di rimanere col cerino in mano, e senza giustizia, anche dopo l’entrata in vigore della norma, e come quindi si sia di fronte solo a un grande bluff giustizialista.

 

L’unica cosa certa, alla fine, è il rischio di processi eterni per tutti. Che dire, auguri.