Calogero Mannino (foto LaPresse)

Gli hanno rubato la vita

Giuseppe Sottile

Chi sono i magistrati che per venticinque anni hanno tenuto Mannino incatenato alla gogna e al sospetto. Cronaca di una lotta alla mafia fanatica e senza prove. E di una giustizia senza fine e senza verità

No, stavolta evitiamo di richiamare Kafka. Perché la storia processuale di Calogero Mannino, ex ministro democristiano, non può essere ridotta a una “trama di insolente assurdità”. E’ molto di più. Ed evitiamo, se possibile, di cercare conforto nel libro di Giobbe, lì dove lo sventurato non riesce a spiegarsi l’accanimento del suo accusatore e infilza “quell’uomo” con parole affilate come lame: “E’ uno che imbratta il pensiero di Dio. E’ uno che parla senza sapere”. Perché i pubblici ministeri che per venticinque anni hanno accusato Mannino di ogni nefandezza mafiosa erano invece magistrati che sapevano quel che facevano. Con il crisma della legge lo hanno tenuto per un quarto di secolo appeso al palo della gogna e dell’incertezza del diritto. Non solo. Lo hanno rinchiuso per quasi due anni in galera. E poi lo hanno costretto a scendere e salire le scale dei tribunali dal 1995 fino all’altro ieri, 22 luglio 2019, giorno in cui i giudici della Corte d’appello lo hanno assolto dall’ultima accusa che la procura di Palermo aveva apparecchiato per murarlo vivo dietro le sbarre di un carcere duro, quello previsto per i boss e per i picciotti di mafia, per gli stragisti di Cosa nostra e per i terroristi della Jihad islamica.

 

Era innocente Mannino. E oggi, alla soglia degli ottanta anni, mostra senza un sorriso tutte le sentenze di assoluzione. Da quella, ottenuta dalla Cassazione nel 2010, con la quale si è liberato dall’infamante accusa di concorso esterno, accusa che gli aveva lanciato addosso Gian Carlo Caselli negli anni tenorili dell’antimafia militante in cui molte procure puntavano in alto non solo per colpire le complicità della politica ma anche e soprattutto “per riscrivere la storia d’Italia”; a quella che lunedì scorso ha cancellato ogni sua responsabilità nella fantomatica trattativa tra lo Stato e i feroci corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, avviata nel ’92, a cavallo delle stragi di Capaci e via D’Amelio per fermare il fiume di sangue che aveva già inghiottito i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Era innocente Mannino. E oggi, alla soglia degli ottanta anni, mostra senza un sorriso tutte le sentenze di assoluzione

Un processo a due teste: da un lato quello celebrato con rito ordinario nell’aula bunker dell’Ucciardone e che si e concluso in primo grado con pesantissime condanne per due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, e per due boss mafiosi, Leoluca Bagarella e Gaetano Cinà; dall’altro, quello abbreviato scelto da Mannino nella speranza di tirarsi quanto prima dai guai e chiuso l’altro ieri con una assoluzione in appello identica, nella forma e nella sostanza, a quella emessa nel novembre del 2015 da Marina Petruzzella, giudice di primo grado.

 

Il processo della Trattativa non era stato imbastito nella stagione di Caselli. Era un vecchio progetto, chiamato agli inizi “Sistemi criminali”, al quale si era molto affezionato Roberto Scarpinato, che fu pm negli anni ruggenti in cui finì sotto accusa per mafia Giulio Andreotti, per sette volte presidente del Consiglio dei ministri. Ma il lancio vero e proprio avviene attorno al 2010 quando a capo della procura di Palermo c’è Francesco Messineo e quando Mannino è stato appena assolto in Cassazione dall’accusa di concorso esterno.

 

A quel tempo Messineo veniva affiancato da Antonio Ingroia, un procuratore aggiunto che voleva a tutti i costi guadagnarsi un posto nel firmamento della giustizia spettacolare e, conseguentemente, una posizione di tutto rispetto nel panorama della politica nazionale. E Ingroia – certamente in ossequio all’obbligatorietà dell’azione penale, un dogma costituzionale – non trovò di meglio che concentrarsi su un patto scellerato, tutto da dimostrare, tra alcuni alcuni organi deviati dello Stato, identificati in tre ufficiali del Ros, e i sanguinari capi della mafia vincente, quella che aveva sterminato a colpi di kalashnikov la cupola palermitana di Michele Greco detto “il papa” e poi pretendeva pure di costringere, a colpi di tritolo, lo Stato a revocare il 41 bis ai killer e ai picciotti rinchiusi nel carcere duro.

 

L’ex ministro democristiano era ritenuto “disponibile”, parola che nel dizionario del pentitismo equivale al nulla

Ammesso che la trattativa ci sia stata – ma lo spunto di indagine lo fornisce un pataccaro di nome Massimo Ciancimino, figlio del molto rispettabile don Vito, uomo di onore di Corleone ed ex sindaco di Palermo, che Ingroia porta in giro nei talk-show come “icona dell’antimafia” – non si capisce che cosa c’entri Mannino. Ma tant’è. Nei fascicoli intestati all’ex ministro democristiano le vecchie volpi della procura trovano ovviamente tonnellate di carte, di verbali e soprattutto di detti e contraddetti riconducibili ai tanti pentiti che nei processi per il concorso esterno – primo grado, due appelli, due giudizi di legittimità in Cassazione – avevano elencato fatti, misfatti e dicerie a carico dell’imputato eccellente. Pensate che il concerto d’inizio era stato inaugurato da Gioacchino Pennino, un personaggino del sottobosco democristiano, che la procura di Caselli aveva presentato all’immancabile coro dei giornalisti come “il Buscetta della politica”. Ma Pennino si era limitato ad affermare che nella sua cosca Mannino era ritenuto “disponibile”. Parola che nel dizionario del pentitismo equivale al nulla: come “avvicinabile” e tutto l’armamentario usato dagli ex mafiosi per dire e per non dire. Ingroia però non si è rassegnato e negli abissi chiari del sospetto ha trovato una informativa nella quale si narrava che l’ex ministro, nell’anno di sangue 1992, vive – con l’omicidio di Salvo Lima, proconsole andreottiano in Sicilia – un grande spavento e comincia a raccontare le sue paure al capo della polizia Vincenzo Parisi e al vice capo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio. La Trattativa, sostengono le squadre speciali della procura, nasce proprio da quei colloqui. E Mannino diventa nuovamente imputato. Aveva impiegato quindici anni per scrollarsi dalle spalle l’accusa di concorso esterno. E si ritrova di fronte a un altro calvario. Più chiassoso e mediatico. Si ritrova di nuovo appeso all’albero della gogna, di nuovo alle prese con gli avvocati, di nuovo costretto a spese insostenibili, di nuovo legato alle tensioni di un tritacarne più crudele e più spietato del carcere.

 

Gli brucia il cuore ad ammetterlo, ma lo dice e non per il gusto di un paradosso. Sostiene che tutto sommato è andata meglio a Totò Cuffaro, ex presidente della Regione: cinque anni di sali e scendi dai tribunali, altri cinque a Rebibbia e in dieci anni è finito tutto. “Io invece sono rimasto impigliato nella trappola per più di venticinque anni. E senza una condanna. Ho espiato una pena inflitta non da un collegio giudicante, ma da una procura che non accettava le assoluzioni e che voleva a tutti i costi che io soccombessi; o che morissi prima dell’ultima assoluzione: così bene o male sarebbe rimasto in piedi il sospetto e loro avrebbero comunque salvato la faccia”.

Ma chi sono stati, a parte i capi Caselli e Messineo, i magistrati della procura di Palermo che hanno massacrato la vita e l’onore di Calogero Mannino, tenuto – ha scritto su La Stampa un folgorante Mattia Feltri – per venticinque anni “sotto sequestro da uno Stato incivile”?

 

I boss murati nel carcere duro, quando lo stato vince. E poi l’antimafia chiodata, che trasforma in mostri molti innocenti

E sì, perché la condizione di imputato, di imputato di mafia, ti seppellisce nel buio di un’esistenza sfregiata e mutilata: non hai la certezza dei tempi perché non sai quando finirà e perché le leggi d’emergenza contro la criminalità organizzata di fatto non prevedono la prescrizione: fine gogna mai. Non puoi programmare nulla perché non ci sarà una banca disposta a prestare a te, che hai quelle roventi accuse sulle spalle, nemmeno mille lire e difficilmente troverai un amico pronto a darti una mano. Anzi. La gogna ha anche i suoi effetti collaterali: sei all’aeroporto o in una piazza ed è come se fossi un appestato; perché la mafia è una lebbra che giustamente indigna e ripugna, e tu sei imbrattato di quella cosa lì, di una cosa schifosa e ributtante.

 

E allora, meglio il carcere che un sequestro lungo venticinque anni. Un sequestro che non ti dà pace, anche perché vedi scorrere le immagini dei magistrati che ti hanno inseguito e perseguito, che per anni ti hanno contestato sempre le stese cose, e che per te non incarnano più la maestà della legge e dello stato di diritto ma la miseria di una persecuzione. Prendiamo il giudice Alfredo Montalto che per cinque anni ha presieduto, nell’aula bunker dell’Ucciardone, la Corte d’Assise chiamata a giudicare gli imputati della Trattativa che avevano scelto il rito ordinario. Aveva citato Mannino come testimone, ma l’ex ministro si è avvalso del diritto di non rispondere: Montalto, da giudice per le indagini preliminari, aveva firmato il 13 febbraio del 1995 l’ordine di cattura con il quale la procura di Caselli lo ha trascinato a Rebibbia e lo ha sepolto lì per quasi due anni. Ne è uscito – ora sì che vale la pena ricordare Kafka – “coperto di sporcizia e di muco” ma ha dovuto aspettare fino al 1998 per ritrovarsi in un’aula di tribunale e spiegare le ragioni della sua innocenza.

 

Sì, l’innocenza. Per carità, l’assoluzione definitiva per il concorso esterno è arrivata nove anni dopo, con il sigillo della Cassazione, e non tutte le assoluzioni autorizzano gli ex imputati a chiedere conto e ragione ai magistrati dell’accusa. Perché la legge dà per scontato che se una procura ti mette sotto inchiesta e poi ti manda a processo un quadro indiziario deve quantomeno averlo. E poi c’è il mito – il falso mito, si stava per dire – dell’obbligatorietà dell’azione penale dietro la quale ogni pm trova riparo e protezione. Ma nella storiaccia brutta di Mannino – oltre a Ingroia e all’ambizione che lo ha mosso: si è presentato alle elezioni del 2013 come candidato premier – torna costantemente, come in un diario perpetuo, il sostituto Vittorio Teresi. Un caso più unico che raro. Teresi, assieme alla collega Teresa Principato, firma il primo avviso di garanzia per mafia e la richiesta dell’ordine di cattura. Ed è il pm che rappresenta l’accusa nel processo di primo grado. Processo che, nel luglio del 2001, si conclude con una assoluzione. Ma la procura non accetta quella sentenza e Teresi firma il ricorso in appello. La palla, chiamiamola pure così, passa alla Corte di secondo grado che, con grande sorpresa della difesa e soddisfazione dell’accusa, ribalta il primo grado e condanna Mannino a cinque anni di reclusione.

 

L’accusa, manco a dirlo, è stata sostenuta ancora una volta da Teresi che, miracolosamente, era stato nel frattempo promosso alla procura generale e ha potuto così riannodare in appello i fili che la sentenza di primo grado aveva sfilacciato. Ma nel 2006, ecco la doccia fredda. Il procuratore generale della Cassazione, Francesco Jacoviello, definisce la condanna un perfetto esempio del modo in cui una sentenza non andrebbe mai concepita né scritta e chiede di ripetere il processo. Teresi rientra in aula e prova a rimodulare le accuse, ma i giudici d’appello, che hanno già subito la mortificazione di Jacoviello, non gli danno retta e assolvono Mannino con formula piena. Nel 2010 la sentenza passa in giudicato con l’avallo della Cassazione e per l’ex ministro della Dc sembra tornare finalmente la luce della libertà.

Ma c’è Ingroia in agguato. E con Ingroia c’è tutta la filiera dei pm che già lavorano al processo sulla Trattativa. Ci sono Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene. E c’è ancora lui, sempre lui: Vittorio Teresi, tornato nel frattempo all’ufficio dell’accusa come procuratore aggiunto.

 

Ho espiato una pena inflitta non da un collegio giudicante, ma da una procura che non accettava le assoluzioni

Mannino cerca ovviamente una via di fuga e la trova nel rito abbreviato. Ben consigliato dagli avvocati non solo sfugge così ai clamori mediatici dell’aula bunker ma si sottrae pure agli umori e alle suggestioni dei giudici popolari bersagliati ogni giorno da interviste e talk-show e dalla campagna martellante di una Confraternita di fanatici, molto vicina a Di Matteo, per la quale non ci sarà giustizia, nei secoli dei secoli, senza una condanna esemplare degli ufficiali del Ros e dei boss di Cosa nostra protagonisti del patto tra Stato e mafia.

 

Il rito abbreviato si rivela la carta vincente. In primo grado il giudice Marina Petruzzella parla di un deserto probatorio e fa letteralmente a pezzi le finte rivelazioni del pataccaro Ciancimino. Di conseguenza straccia anche le tesi di Ingroia. Ma Teresi, che rappresenta ancora una volta l’accusa in udienza, non molla la preda e ricorre in appello. Arriviamo così al maggio del 2019. In aula Mannino deve vedersela non più con Teresi ma con due sostituti incaricati dal procuratore generale Roberto Scarpinato – lo stesso che aveva inventato i “Sistemi criminali” – di chiedere alla Corte condanne non inferiori a otto anni. Ma la giustizia ha finalmente un sussulto di pudore, forse anche di vergogna. E dopo venticinque anni ripulisce Mannino da ogni lordura mafiosa: né concorso esterno né patto sporco.

I boss, come Riina e Provenzano, muoiono murati nel carcere duro; perché lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Ma l’antimafia chiodata, che vive e lotta insieme a noi, ha trasformato in mostri molti innocenti e li ha seppelliti in processi senza prove e senza fine.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.