Luca Palamara (foto LaPresse)

Così parlò Palamara (da Minoli). I fatti, le correnti, la gogna

Ermes Antonucci

Il magistrato al centro dello scandalo delle nomine al Csm si difende dalle accuse e solleva critiche sul mondo della magistratura

Roma. Luca Palamara, il magistrato al centro dello scandalo delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, indagato per corruzione e sospeso dalla sua funzione di pm a Roma, ha parlato per la prima volta della sua vicenda venerdì scorso ai microfoni di Rai Radio1, all’interno di “Il mix delle 5” condotto da Giovanni Minoli. Palamara ha innanzitutto rigettato le accuse mosse nei suoi confronti dalla procura di Perugia, a partire da quella di aver ricevuto 40 mila euro in cambio di un suo intervento, all’epoca in cui sedeva in Csm, in favore della nomina di Giancarlo Longo (allora pm a Siracusa) a procuratore capo di Gela. Una nomina, come ha sottolineato Palamara, che in realtà “non è mai avvenuta”. “Non solo – ha aggiunto l’ex membro del Csm rispondendo a Minoli – il nome del dottor Longo non è stato nemmeno proposto in commissione perché al suo posto nel febbraio 2016 è stato nominato all’unanimità il dottor Asaro”. L’ex presidente dell’Anm si è anche difeso dall’accusa di aver ricevuto denaro, vacanze e altri beni dall’imprenditore Fabrizio Centofanti e dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, indagati per corruzione e al centro dell’inchiesta sulle presunte sentenze pilotate in Consiglio di stato: “L’avvocato Calafiore non l’ho mai visto e conosciuto in vita mia. L’avvocato Amara penso di averlo visto due volte in eventi conviviali e il dottor Longo l’ho visto una volta. Non ho mai avuto né rapporti, né frequentazioni, né numeri di telefono, né quant’altro con loro”, ha detto Palamara. Per quanto riguarda gli incontri serali con alcuni componenti del Csm e i deputati dem Cosimo Ferri e Luca Lotti, in cui si discuteva delle nomine nelle principali procure del paese, il pm romano ha ribadito che si trattava soltanto di “attività di discussione” (“il luogo decisionale delle nomine è uno solo: la Quinta commissione del Csm e il plenum”), e sulla particolare partecipazione di Lotti, indagato nell’ambito dell’inchiesta Consip portata avanti dalla stessa procura capitolina, ha sottolineato un aspetto non notato finora: “Nel momento delle cene, Lotti era stato già tecnicamente rinviato a giudizio, quindi la sua vicenda processuale con la procura di Roma era definita e mai e poi mai avrei potuto in qualche modo interferire o influenzare qualcuno”. 

 

Ma al di là delle difese personali, le critiche più forti (e anche più interessanti) sono state riservate a due fenomeni che vanno ben oltre la vicenda specifica che lo ha travolto. Il primo riguarda il potere delle correnti togate. “Le correnti dominano il mondo della magistratura”, ha ammesso Palamara, chiamando in causa anche la nomina del vicepresidente David Ermini: “Le correnti sono state assolutamente determinanti nella nomina del vicepresidente. Se non c’è l’accordo tra le correnti non si può fare alcuna nomina”. Per l’ex membro del Csm, però, i gruppi associativi dei magistrati “non vanno demonizzati”, piuttosto “l’obiettivo è fare sì che le correnti possano aspirare a valori più alti”. Il secondo aspetto evidenziato da Palamara è il meccanismo della gogna mediatico-giudiziaria. “A partire dal febbraio del 2018 – ha raccontato il pm – la notizia di una mia presunta indagine e di accertamenti sulla mia persona era diventata un fatto noto sia tra giornalisti, sia negli ambienti della procura di Roma e dei magistrati. Questa è una situazione che sicuramente mi ha provocato molta delusione, ancora di più quando il 26 settembre 2018 è stata pubblicata sul Fatto quotidiano la notizia che esisteva un’indagine a Perugia che mi riguardava direttamente”. Insomma, il segreto istruttorio è ormai divenuto un colabrodo, e a riconoscerlo è anche un magistrato. Tanto più se si considera che, una volta esplosa l’inchiesta, i giornali hanno riportato per settimane i contenuti delle intercettazioni ottenute attraverso il trojan che era stato inoculato nello smartphone del pm romano: “La procura di Perugia ha trasmesso le intercettazioni al Csm, dopodiché nel mese di maggio sono state pubblicate dagli organi di stampa”. Alla domanda di Minoli: “E la responsabilità di quei materiali chi ce l’ha?”, Palamara ha risposto: “Direi entrambi perché il codice di procedura penale individua come titolare il procuratore della Repubblica. In questo caso si aggiunge il Csm che aveva la disponibilità di queste carte. Sarà oggetto di accertamenti perché si trattava di atti non depositati dei quali gli indagati non erano a conoscenza”. Una presa di posizione insospettabile, se si considera che negli anni dell’ultimo governo Berlusconi fu proprio Palamara a guidare la protesta dell’Anm contro la riforma (poi mai approvata) volta a limitare la pubblicazione di intercettazioni irrilevanti. Come a dire, meglio tardi che mai.