Giorgio Mulé (LaPresse)

Condanna morale

Ermes Antonucci

L’ultima deriva: Giorgio Mulé, mai indagato né sentito dai magistrati, finisce in una sentenza e alla gogna

Il processo mediatico ha raggiunto una nuova e inquietante frontiera. È quella in cui una persona che non è mai stata indagata, imputata, né tantomeno sentita come testimone o persona informata dei fatti viene giudicata sul piano morale da un magistrato all’interno di una sentenza di condanna che riguarda altri imputati, per poi essere messa alla gogna dai giornali e persino da una commissione parlamentare d’inchiesta. La prima vittima di questa nuova forma di tritacarne mediatico-giudiziario è Giorgio Mulé, giornalista, ex direttore di Panorama e oggi deputato di Forza Italia. Il suo nome è stato tirato in ballo dagli inquirenti nell’ambito dell’inchiesta su Antonello Montante, l’ex presidente di Confindustria Sicilia, per anni considerato un paladino dell’antimafia, condannato a maggio in primo grado a quattordici anni di carcere per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico.

  

Mulé con i fatti che hanno portato alla condanna di Montante e degli altri imputati non c’entra nulla, tanto che non è mai stato neanche indagato o ascoltato dai magistrati. Nell’epoca della gogna, però, basta poco per scatenare il fango. Nelle carte dell’inchiesta è infatti finita una vicenda che riguarda l’attuale deputato di Forza Italia: nella primavera del 2014 Mulé, all’epoca direttore di Panorama, declinò la proposta di un giornalista freelance, Gianpiero Casagni, di pubblicare un articolo riguardante i rapporti tra Montante e Vincenzo Arnone, figlio del boss mafioso di Serradifalco Paolino Arnone, e in particolare la notizia che nel 1980 entrambi gli Arnone parteciparono come testimoni di nozze al matrimonio di Montante. Chiunque conosca la linea editoriale di Panorama (soprattutto dell’epoca) non sarà sorpreso della decisione di Mulé di non pubblicare un articolo dal taglio giustizialista, soprattutto se si considerano altri importanti elementi.

 

Primo, in quel periodo Montante era unanimemente riconosciuto come un paladino antimafia (l’inchiesta a suo carico emergerà solo successivamente, nel febbraio 2015). Secondo: all’epoca la direzione investigativa antimafia e la direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, oltre a incensare Montante per la sua attività antimafia, avevano messo in guardia dal pericolo di azioni di delegittimazione nei confronti del presidente di Confindustria Sicilia portate avanti “attraverso il metodo della diffamazione e del discredito mediatico”. Terzo: la proposta di Casagni era stata anticipata su Facebook a Mulé in una strana circostanza da Stefano Zammuto, giudice ad Agrigento, che trentacinque anni prima era stato compagno di classe di Mulé ma che con quest’ultimo non aveva poi intrattenuto più alcun rapporto. Quarto: l’articolo proposto da Casagni si basava su notizie che erano già state pubblicate su un altro periodico un mese prima. Quinto (ma questo si saprà solo dopo): Casagni aveva provato più volte a ottenere un incarico lavorativo proprio da Montante, senza però riuscirci.

  

Insomma, Mulé aveva tutte le ragioni del mondo per rifiutare di pubblicare l’articolo, che poi troverà spazio sulla rivista Centonove nell’aprile 2015, cioè solo dopo che la notizia dell’inchiesta su Montante sarà ufficiale. Nonostante ciò, e nonostante Mulé non sia mai stato ascoltato durante l’indagine e il processo, nelle motivazioni della condanna in primo grado a Montante, il gup di Caltanissetta, Graziella Luparello, chiama in causa l’ex direttore di Panorama, lanciandosi in una serie di pesanti valutazioni etico-morali. In un passaggio, ad esempio, il giudice definisce addirittura “assai poco onorevole” l’ingresso in politica di Mulé, dal momento che “è Mulé a dovere giustificare, sul piano dell'etica professionale, la scelta di tradire la fiducia di Casagni in favore di Montante”. Insomma, per il giudice “l’aspetto gravissimo della vicenda” va rintracciato “nella condotta dell’onorevole Mulé, il quale, anziché vagliare il materiale documentale messogli a disposizione dal collega giornalista e verificare la veridicità della notizia offertagli, optava per la soluzione della passiva supinazione ai piedi di Montante al quale ‘vendeva’ Casagni a basso prezzo, in un pacchetto all inclusive che comprendeva anche il proprio ex compagno di classe Stefano Zammuto”.

  

A questo particolare trattamento giudiziario, si è aggiunta la gogna mediatica e politica. Il 22 ottobre la commissione parlamentare antimafia presieduta dal grillino Nicola Morra ha invitato in un’audizione proprio Casagni, che in diretta streaming ha potuto accusare nuovamente Mulé di aver censurato il suo articolo e di aver fatto il suo nome a Montante. Di fronte all’ennesima ondata di fango, Mulé è stato costretto a chiedere alla commissione di essere audito. Il giorno prima di essere ascoltato, il 13 novembre scorso, i passaggi delle motivazioni della sentenza Montante che riguardano l’ex direttore di Panorama sono stati pubblicati in bella evidenza sul sito di Repubblica, nientedimeno che su un blog denominato “Mafie”. In commissione antimafia Mulé ha smentito il racconto di Casagni, “viziato da falsità materiali e ideologiche”, e ha sottolineato l’incredibile trattamento giudiziario di cui è stato vittima: “Che giudice è – si è chiesto Mulé – colui che si pronuncia nei confronti di un cittadino senza neppure aver svolto accertamenti o approfondimenti, senza neppure aver sentito la necessità di chiedere la sua versione dei fatti? Che giudice è quello che nega la moralità a un soggetto totalmente estraneo al processo, e anzi la distorce rappresentandolo come un delinquente?”. Domande che meriterebbero una risposta dal Consiglio superiore della magistratura.

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