Il presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas (foto LaPresse)

Il punto non è la rottura tra centro e periferia, ma l'assenza di leader responsabili

Adriano Sofri

Il “dopo virus” tra spinte centripete e centrifughe

All’arrivo dell’epidemia scrissi qui che mi sembravano incombere due disastri analoghi, salva la differenza di scala: una rottura aggravata fra nord e sud dell’Unione europea, e una rottura aggravata fra nord e sud dell’Italia unita. Ai fattori storici e recenti del doppio divario si aggiungeva ora la più tarda e meno severa virulenza epidemica nell’Europa del nord, e la paura per quello che sarebbe successo al sud italiano quando la diffusione del contagio l’avesse raggiunta con la cattiveria che andava prendendo in Lombardia e nel resto del nord. Le cose non sono andate così, finora, e tuttavia non hanno scongiurato la minaccia di quella deriva.

 

In Italia, la pandemia ha infuriato in modo insostenibile in Lombardia, dove il governo regionale si era ubriacato della velleità di mostrarsi come un modello addirittura internazionale di lungimirante trattamento del virus: l’esibizione continua dei notabili mentre persone e luoghi andavano in malora, e la regione più avanzata, più “nordeuropea”, subiva il primato tragico di morti e malati e il fallimento della struttura sanitaria, di fronte alla meravigliosa dedizione dei suoi sanitari e di tanta sua gente. Intanto, sul sud italiano la pandemia, dopo tanto tuonare, non piovve. E cominciarono a manifestarsi sentimenti e gesti di rivalsa sulla realtà e insieme sul luogo comune del ritardo e dell’inferiorità meridionale. Coi loro campioni, De Luca il terribile, l’imprevista Santelli, fino al Solinas sardo che vuol chiudere l’isola ai lombardi senza certificato.

 

Oggi sono in molti a denunciare nella conduzione della resistenza alla pandemia dei mesi scorsi un accanimento centralistico e un’invadenza dell’esecutivo, denuncia che si spinge a coinvolgere la decisione del governo di “chiudere” l’Italia intera, a marzo. Che è stata probabilmente, di tutte le misure, la più efficace, e non a caso è stata praticata dalla stragrande maggioranza dei cittadini con una forte adesione.

 

Di fatto, la rivalità fra governo nazionale e governi regionali (con i sindaci molto più in ombra) ha segnato tutto il periodo scorso, prendendo a pretesto l’equivoco sulla competenza regionale per la Sanità: Sabino Cassese l’ha smantellato ad abbondanza qui e altrove. Ma in periodi tempestosi la lettura della legge e gli strappi alla legge vanno per le proprie strade, e i fatti compiuti si sono moltiplicati, altrettante sfide cui non si poteva reagire se non con gride secentesche. I governi regionali si sono presi delle libertà, diciamo, e tanto più significativamente quanto più si allentavano i vincoli di partito: Lombardia leghista di Fontana, mascheretta di Salvini, Veneto leghista di Zaia, Sardegna leghista di Solinas… Oggi è diventato quasi stravagante ricordare come appena prima (“Prima del Virus”, è il nuovo calendario) ci si battesse sulle autonomie regionali differenziate fino, in sostanza, a proporre la liquidazione del Risorgimento. Battaglia condotta già dalle regioni “leader”, Lombardia e Veneto (il Piemonte è sempre più una periferia del regno) ed Emilia-Romagna di rincalzo, una specie di anticipazione della geopolitica del virus. Di quelle autonomie che imbellettavano il vecchio secessionismo, e già stridevano con l’arrembaggio nazionalsovranista di Salvini, dovrebbe restare poco o niente, “Dopo il Virus”. Ma resta, anzi è rafforzata, una duplice spinta centripeta-centrifuga, i cui attori, al governo nazionale o a quelli locali, sono quasi tutti aleatori, screditati, improvvisati e tentati dall’azzardo.

 

La responsabilità, nome che per il momento va pronunciato a preferenza del sinonimo, democrazia, è merce rarissima, tanto più apprezzabile. Per questo sono perplesso dalla nettezza con la quale Giuseppe De Rita denuncia ora un rincaro di centralismo e statalismo ai danni delle autonomie e delle differenze: perché, se non sia una scelta di principio – per il decentramento, le diversità, un federalismo, nei confronti di centralismo e autoritarismo – di fatto oggi le forzature, e le stesse ottusità burocratiche, vengono dalla periferia almeno quanto dal centro. Lo scriveva ieri Luigi La Spina sulla Stampa, “A rischio l’unità dello stato”. De Rita aggiunge un’altra cosa che, nella mancata lungimiranza circa un “rilancio” dell’economia, è più probabile una nuova corsa all’economia sommersa, questa volta non più animata, illeciti compresi, dall’aspirazione alla promozione sociale, ma ridotta allo sforzo di sopravvivenza. Un Dopovirus mortificato rispetto al Dopoguerra eccitato.

 

Qui però c’è l’altra partita, il rapporto fra nord e sud dell’Europa unita. Benché davvero alla latitudine settentrionale, e in particolare tedesca, il virus sia stato tenuto molto meglio a bada rispetto a Italia e Spagna (Francia anche, dove è stata tenuta più a bada la contabilità), le decisioni ultime dell’Unione, ancora solo enunciate, vanno contro la temuta deriva del continente, e permettono di confidare in uno scioglimento del groviglio nazionale fra centralismo e frantumazione dentro la più larga rete europea: che è la ragione per la quale l’Unione esiste, guerre e pandemie comprese. Naturalmente, da qui il problema diventa quello delle classi dirigenti e delle leadership, in tutti i campi. A occhio, il punto più febbricitante che, a Roma o in periferia, nell’industria e nel giornalismo e nella magistratura e nella chiesa vaticana e di Bose, e nell’universale chat, si sia registrato.