A proposito di monumenti contestati, a Trieste c'è l'ennesimo groviglio di memorie

Adriano Sofri

Tra Basovizza e il rogo fascista del Narodni dom

Su Trieste incombono (sempre) anniversari “storici”. Il più rotondo, cento anni, per l’assalto e il rogo fascista del Narodni dom, 13 luglio del 1920. Il grande palazzo progettato da Max Fabiani era il rigoglioso centro della comunità slovena e delle altre minoranze slave: ospitava le 62 stanze del famoso Hotel Balkan, caffè e ristoranti, banche e assicurazioni, un teatro da 400 posti, le sedi di associazioni culturali, artistiche e sportive, una biblioteca e una tipografia, palestre e società di mutuo soccorso.

 

L’incendio del Narodni dom (Casa del Popolo, o della Nazione) ebbe un enorme peso simbolico. Il suo promotore, lo squadrista toscano e poi ras del fascismo triestino e segretario del Pnf, Francesco Giunta, rivendicò quel “fuoco purificatore” inaugurale del programma elettorale fascista. Renzo De Felice ne avrebbe scritto come del “vero battesimo dello squadrismo organizzato”. Espropriato e ricostruito senza affacciarsi più sulla piazza della Caserma, poi piazza Oberdan, il Narodni è oggi sede della sezione di studi per Interpreti e Traduttori dell’università triestina. Il 23 gennaio scorso, da Gerusalemme, dove commemoravano la Giornata della memoria della Shoah, il presidente Sergio Mattarella e il collega sloveno Borut Pahor annunciarono per il 13 luglio, alla scadenza del secolo, la cerimonia congiunta di restituzione del Narodni dom alla comunità slovena. Messa in forse – come tutto – dalla pandemia, la data è stata riconfermata nei giorni scorsi dai rispettivi ministri degli Esteri. Le proteste più clamorose sono venute da Fratelli d’Italia, da sempre fautori di una versione della controversa giornata del 1920 che trasforma gli aggressori in aggrediti (di recente una sortita leghista a Trieste era tornata a dichiarare che a incendiare il Balkan erano stati i suoi inquilini sloveni), e ora impegnati ad argomentare che la restituzione costa e in tempi di Covid-19 lo stato italiano non può permetterselo.

 

Si è detto che i due presidenti avrebbero visitato nella stessa giornata il monumento alla foiba di Basovizza, e la notizia è stata salutata con soddisfazione dall’Unione degli esuli istriani e dall’Associazione Giuliani nel mondo. Ma le complicazioni non sono finite e non sono finiti gli anniversari. Il 6 settembre del 1930 furono fucilati al poligono di Basovizza quattro giovani militanti, triestini e cittadini italiani, Ferdo Bidovec, Zvonimir Miloš, Fran Marušicč e Alojzij Valencicč: due sloveni, uno croato, uno di madre veneziana e padre sloveno. Erano stati processati spettacolarmente dal Tribunale Speciale, per l’occasione insediato a Trieste, come membri della società segreta irredentista e antifascista “Borba” (Lotta) e autori di un attentato alla sede del quotidiano fascista “Il Popolo di Trieste”, in cui era morto un redattore. Con altri 12 imputati condannati a pesanti pene detentive, i quattro vennero condannati a morte (delle 31 condanne a morte pronunciate fra il 1927 e il 1943 dal Tribunale Speciale per la Difesa dello stato ed eseguite, ben 24 furono di sloveni e di croati).

 

Dunque, 15 anni prima di dare il nome alla Foiba, il piccolo centro del Carso triestino, Bazovica/Basovizza, era consacrato nella memoria slovena per i “Quattro Martiri”. Ogni anno, il 6 settembre, vi si svolge una commemorazione, quest’anno resa più solenne dall’anniversario tondo, 80 anni. Dunque Trieste e le rispettive autorità si trovano di fronte a un ennesimo groviglio di memorie. Pochi giorni fa il presidente Pahor ha confermato alla tv slovena la propria partecipazione all’omaggio comune al monumento alla Foiba solo se sarà affiancato da quello al monumento ai quattro fucilati. Dunque il solo evento fissato sembra essere finora la riconsegna del Narodni dom.

 

Un fatto compiuto, nella giostra degli anniversari rinfacciati, c’era stato nel settembre scorso, nel centenario della cosiddetta Impresa di Fiume, quando in piazza della Borsa, proprio dirimpetto a un altro famoso edificio di Fabiani, la “Casa Bartoli”, si inaugurò la statua di bronzo di Gabriele D’Annunzio, seduto su un angolo di panchina, gambe accavallate e libro in mano. Ci fu discussione. Oggi forse non l’avrebbe passata liscia.

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