(foto LaPresse)

La lenta agonia della giustizia, affondata da una politica che rincorre i talk show

Adriano Sofri

Intanto è ricominciata la sfilata di Salvini nelle carceri

Si segue con una costernazione il travaso del problema della giustizia nella trasmissione di La7 condotta da Massimo Giletti. Sembrava riguardare un clamoroso dissidio fra il magistrato Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a proposito della nomina a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Clamoroso tanto più per la presunta, fino ad allora, affinità politica e personale fra i due.

 

Nel giro di poco più di un mese la vicenda si è dilatata fino a confiscare l’intera agonia della giustizia, il Consiglio superiore della magistratura, le sue vicende correntizie di carrierismi e corruzioni, i criteri delle nomine ai vertici degli uffici giudiziari, i rapporti fra magistrati inquirenti e giudicanti, l’interpretazione e l’applicazione delle pene. Ai due protagonisti, il volonteroso Di Matteo e il renitente Bonafede, si sono aggiunti via via Gratteri e il suo programma edilizio (4 nuove carceri per 20 mila detenuti), De Magistris, col suo carico di presofferto, diciamo così, un’inchiesta drastica sul già grigio e dimissionato Basentini, il versatile Palamara, magistrati d’esperienza come Sabella e Ardita, e nell’ultima puntata, inopinatamente per chi ne immaginava un riserbo più invincibile, il procuratore antimafia Cafiero De Raho. Formalmente il collasso (così lo chiamano gli stessi suoi celebranti) della giustizia viene preso in cura dal Parlamento e dalle commissioni pertinenti, dai responsabili del ministero e del governo e dal Csm, a presiedere il quale sta il Presidente della Repubblica: cioè dalle massime sedi istituzionali. Gli stessi attori televisivi sostengono di rinviare a quelle sedi il proprio impegno di testimonianza. In realtà succede il contrario, e quelle solenni sedi istituzionali rincorrono trafelate il clamore televisivo.

 

Si può interpretare tutto ciò come un caso di trasparenza. Seguo con costernazione soprattutto perché nell’apparente drammatico garbuglio di posizioni e personalità un risultato affiora univocamente: l’incattivimento sulla condizione carceraria. Su quello c’è un’oggettiva unanimità, dal licenziamento del capo del Dap Santi Consolo, due anni fa, in poi. E’ un amaro paradosso che lo scandalo nel ministero della Giustizia, con le dimissioni dei responsabili penitenziari, sia stato provocato dalle improvvisate circolari con le quali cercarono in ritardo di mettersi al riparo dai rischi della pandemia. E’ meraviglioso come le galere siano derelitte di fatto e insieme offrano alla crisi di astinenza dei duri un piatto ricco, ricchissimo: Salvini che di nuovo corre a Santa Maria Capua Vetere e ne fa il cuore della sua recita a “Porta a Porta” – dopotutto i detenuti sono un surrogato e una quintessenza degli immigrati, ci hanno invaso le celle. Di nuovo “i boss mafiosi” diventano la parte cui si assimila il tutto, la moltitudine di disgraziati dei giudiziari e dei recidivi della droga. E di nuovo si spinge la polizia penitenziaria a vedere nei detenuti un nemico da disprezzare e contenere.

 

Detto questo, nel programma di domenica c’era una breve invasione di Adriano Celentano con un video intitolato all’Inesistente. Ipotizzava che fra due che hanno ragione possa essercene uno che non ce l’ha – figuriamoci fra tanti. Immaginava che tutti noi, gli italiani, saremmo disposti a risarcire chi lavora per la florida industria e spaccio internazionale delle armi dei costi della chiusura. Va bene, possiamo discuterne. Noi italiani, e anche tutti gli altri, siamo capaci di tutto. Quando vedo Celentano sono contento. Mi sento come un detenuto che vede Adriano Celentano.