(foto LaPresse)

Spaventati e offesi

Adriano Sofri

Noi, prima e dopo il virus. Il resoconto di Ezio Mauro letto come la resa dei conti del genere umano che ancora poco fa “dava l’assalto al cielo” e ora cerca di dare ordine alla ritirata

Di tutte le divisioni che la pandemia ha accentuato, esasperato, una è quella fra chi stava chiuso in casa, a norma di legge, “tutti”, e gli alcuni milioni che lavoravano, dagli ospedali ai cimiteri in giù, perché “tutti” potessero starsene chiusi in casa. E’ improbabile che abbiano avuto il tempo di scrivere i loro diari, arriveranno le loro memorie, e quelle dei sopravvissuti alle rianimazioni, saranno diverse, non saranno state un modo di ammazzare il tempo mentre si badava a non esserne ammazzati. “In realtà quel che cerchiamo è la conferma che anche stasera siamo tra gli scampati”.


Niente sarà più come prima: sciocchezze, sarà come prima, più di prima. Ci sarà un’ingordigia in più, e più rancore anche


 

Oggi mi occupo di un altro testo della pandemia, quello di Ezio Mauro, “Liberi dal male. Il virus e l’infezione della democrazia”, che esce per Feltrinelli. Non è un diario questo, è un dizionario enciclopedico del nostro virus, e un trattato profetico sul Nemico, con la profezia voltata all’indietro, a riconoscere il passato, fino a ieri, a un’ora prima, “alla luce” del virus. Come una risacca della palingenesi sognata – se non da lui, da intere generazioni. Mauro non ricorre all’accento personale, intimo, che segna i diari e vuole riscattare la pretesa della pandemia di passar sopra agli umani all’ingrosso, spogliandoli dell’individualità, di ciò che è solo loro, compresa la loro morte. Ma ho letto (arbitrariamente, chissà) questo resoconto apparentemente metodico di Mauro come la resa dei conti di un genere umano che ancora poco fa, tant’è vero che se ne ricorda come di una ferita bruciante, andava all’attacco, “dava l’assalto al cielo”, comunque, e che ora cerca di dare ordine alla ritirata che rischia di mutarsi in rotta. C’è anche una lingua di strategia militare, nel libro, di una politica militarizzata e viceversa, ma a colpire è un’enfasi deliberata e segnalata come in uno spartito, da cose ultime. Non so recensirlo, gli allego alcuni dei pensieri che la lettura suscita, a cominciare dalla rivelazione, l’apocalisse. L’avvertimento che le epidemie sono sempre successe, ma ce ne eravamo dimenticati. Se e quando, quando piuttosto che se, il Vesuvio erutterà, sarà il momento televisivo dei sismologi e dei geofisici e dei geologi, e diremo che la natura si riprende i suoi diritti, ma non delle eruzioni precedenti ci saremo dimenticati (Mauro no, io ero vivo quando avvenne l’ultima) bensì degli avvertimenti ininterrotti di tutti questi anni, in cui un popolo di formiche saliva sempre più su, verso il cratere, in gara coi pini e con l’ultima, la ginestra. La rimozione distingue l’uomo dagli altri animali, la paura soprattutto li unisce. Rimuoviamo sora nostra morte corporale personale, volete che non rimuoviamo quella collettiva, la morte all’ingrosso, anonima, fossa comune?

 

Niente sarà più come prima: sciocchezze, sarà come prima, più di prima. Ci sarà un’ingordigia in più, un’ingordigia di prima. E più rancore anche, perché niente è meno democratico della pandemia. C’era il trucco, perché qualche ricco e famoso, qualche padrone, può morire, qualche primo ministro può andarci vicino, ma alla fine dei conti i padroni saranno più padroni, i morti di fame più morti e più affamati. Qualcuno però avrà saputo trarne frutto davvero, avrà intuito, intravisto, il piacere della conversione, dell’altra vita, piena, di senso, di corrispondenza col tempo, di movimento mentale e sentimentale. Aggiorneremo il calendario: Prima e Dopo la Pandemia, il 2020 p.D., l’1 d.P ? No, i morti sono stati troppo pochi, poca cosa, poveri morti. Piuttosto, quanto ci mette l’inimmaginabile a diventare esistente, scontato, ordinario? Il tempo di un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, Dpcm. Che stupidi i negazionisti dell’epidemia, e i minimizzatori. Di che grande occasione di intelligenza e di conoscenza di sé si sono privati – per uno snobismo intellettuale, per tener duro su un paio di nozioni che non avevano previsto che al mondo succedono cose diverse.


La rivoluzione, la sovversione ragionata, è sfuggita alle nostre mani e alle nostre menti e torna a noi nella parodia tragica del contagio


 

La globalizzazione avviene nello spazio – come i romanzi di Dostoevskij, le loro scene madri. L’unità di spazio in cui tempi già immemorabili si comprimono, altro che il tempo della Chiesa e il tempo del mercante, quelli erano primi passi, giardini d’infanzia. Ora si mette insieme il tempo del pipistrello e del pangolino, del mercato bagnato di Wuhan, acqua e sangue di macelleria (che nome, in Giappone il mercato dell’acqua sta per la prostituzione) e di Milano, di Nembro e di Manhattan. Tutto insieme, la fine dell’esotico, le distanze bruciate e risarcite con un metro regolamentare. La stessa ragione che tira fuori un virus ignoto dai suoi ricettacoli finora inesplorati e lo manda a fare il giro del mondo in 80 ore è destinata, salvi miracoli, a suscitare la guerra. Perché l’epidemia non è la guerra, come si è amato dire (l’hanno detto specialmente quelli che non sanno che cos’è la guerra), ma la guerra è come la pandemia, e le basterebbe ora una scintilla per trasformare una lite di pianerottolo o una rissa di tribù nella convocazione di un conflitto universale, tutti nello stesso campo di battaglia, quelli del tempo lento e quelli del tempo fulmineo e le loro donne bambini e armenti. Il virus: qualcuno, chissà, tirerà fuori i diritti del virus. Gli stiamo preparando la strada con l’accanita antropomorfizzazione: il nemico invisibile, il nemico geniale, il terrorista subdolo che dove s’attacca vive, il nemico vile che si trincera dietro l’anonimato… Siamo spaventati e offesi, offesi più che spaventati: noi, gli umani, la meraviglia del creato, Lei non sa chi sono Io. Lui non sa chi siamo noi, gli capitiamo, semplicemente, e facciamo sì che si replichi a dismisura, anzi, di più, lui non c’è prima che noi gli capitiamo, è solo in potenza, vive solo dopo: Non E’ Nessuno. Il virus non è nessuno, e questa è la sua forza invincibile, almeno all’inizio, e non sa chi siamo noi e se ne frega. Noi, che siamo andati sulla Luna. A ripensarci oggi, vuol dire Noi, che trasporteremo il virus sulla Luna e sull’altre stelle e pianeti. Non è la prima volta che si prevale col pretesto di essere Nessuno. Selvaggiamente, del resto: selvaggio è l’Ulisse dell’inganno e del tormento e dell’irrisione di Polifemo. Nun sì nisciuno. Appunto. A Firenze un signore distinto ha ottenuto ricovero ma ha mancato il riconoscimento altruistico che cercava, e lo cerca ancora: “Sono io il virus”, spiega. Non può capacitarsi che si faccia tanto baccano attorno al virus sconosciuto e infido, e quando lui, in persona, si costituisce, lo si misconosce. I nemici del vaccino troveranno anche questa buona ragione alla causa: che il vaccino stermina una popolazione innocente se mai ce ne furono, e bisognerebbe imparare a convivere col virus, “e del resto quanti di più ne uccidono gli incidenti stradali”. Il virus non è democratico, ma è internazionalista o almanco globale. Risparmia i bambini, e questo lascia interdetti, e perciò commuove i vecchi ma li allarma, anche, si capisce. L’Oms poteva uscirne come governo mondiale, o come un’agenzia in amministrazione controllata. E’ singolare come il dominio fino al Terrore si instaurasse in nome della Salute Pubblica, che non era esattamente la sanità, la salvezza piuttosto, ma alludeva già a un governo mondiale della taumaturgia: i vecchi re guaritori, col toccamento di mano, qui le mani non devono toccarsi, qui ci se ne lava le mani. La guerra dei mondi con gli alieni è un’altra cosa, no? non me ne intendo, ma sono alieni, e il virus è invece quanto di più intimo si possa immaginare, sembra venire da fuori ma viene dal di dentro, risale dal fondo della terra manomessa. Mauro, che pure non scrive mai di cose personali, private, di sé, ha la sua personale scrittura, così simile alla sua lingua parlata, al suo eloquio, dicono tutti stupefatti, e ora la fa visionaria.


Il virus non è nessuno, e questa è la sua forza invincibile, almeno all’inizio, e non sa chi siamo noi. Noi, che siamo andati sulla Luna


 

“Inabissandosi e riemergendo ogni volta in una nuova configurazione il virus si rivela più duttile e flessibile delle forme umane di governo, più capace di adattamento alle nuove esigenze del tempo e dell’ambiente delle istituzioni politiche che abbiamo inventato. Il virus è più veloce della democrazia, più capace di noi a comandare. A farsi strada. A conquistare terreno. Soprattutto a sovvertire. E’ un soggetto rivoluzionario”. Imperdonabile, se dicesse sul serio, se si facesse prendere dalla foga, ma Mauro sa che la democrazia è lenta per definizione e ancora più lenta nell’attuazione (nell’implementazione, stavo per scrivere, e forse verrà un giorno in cui scriverò anch’io implementare, implementazione, ma forse no, sono agli sgoccioli, forse me la cavo) e che il virus sovversivo è solo un altro modo per ribadire che la rivoluzione, la sovversione ragionata, è sfuggita alle nostre mani e alle nostre menti e torna a noi nella parodia tragica del contagio. Le due cose più contagiose degli animali umani sono le risate e gli sbadigli. Anche delle scimmie. Il contagio era il sogno delle rivoluzioni, quando le rivoluzioni si sognavano, la trasmissione da persona a persona, da fratello a sorella, da sorella a fratello, da compagno a compagno, rosso un fiore in petto ci è fiorito ed una fede ci è nata in cuor – l’antropomorfizzazione principale del virus sta nell’immagine, un puntaspilli di velluto grigio argento e rosso, un brand seducente destinato a mille variazioni, l’impostore maligno che ha usurpato un garofano rosso. Ne siamo posseduti, come un tempo dall’Idea: “Cieco e sordo a ogni condizionamento, ha un’unica missione: avanzare, conquistare, colpire per sopravvivere. Noi, dentro il presunto ordine del nostro mondo, possiamo solo cercare di spiarlo, ingannarlo, depistarlo per condurlo nel vuoto dove non può resistere. Parliamo di cellule, microrganismi ed esseri viventi che lottano nel medesimo ambiente. Ma a questo punto è evidente che lui, pur entrando in noi, abita in un’altra dimensione… il virus ci costringe a essere non solo vittime, ma qualcosa di più: suoi spettatori”.

 

Il bracconiere, il cecchino, ha chiuso le case e le ha trasformate in rifugi. Quando la rivoluzione, una qualunque, eravamo noi, uscivamo dalle case, all’armi cittadini, scendevamo nelle strade, nelle piazze, ora deserte, disertate. Ora invece: “Attaccati, senza difesa, non potevamo accettare il confronto aperto. Dovevamo soltanto voltarci, sottrarci, ripiegare. Rinunciare al fuori, dove svolgevamo la nostra vita associata, ritornare dentro, dove ci ritiravamo la notte: come se fosse buio, sempre”. Enfasi, alla lettera. “Il virus ha intanto unito il mondo, per tenerlo in scacco: non avevamo mai conosciuto una minaccia così compiutamente universale”. E’ la reincarnazione del fantasma che si aggirava per l’Europa, il suo rovescio. Era il tempo dello spiritismo e dell’epidemiologia politica, ora è il tempo della virologia biochimica e della piccineria superstiziosa, sovranista.


A essere falcidiata, dallo statuto di micidialità del virus, è la generazione dei giovani quando i giovani si scopersero tanti e spavaldi 


“Senza il vaccino ci manca l’arma letale, quella capace di distruggere il nemico. Lui ce l’ha: non è l’infezione, ma la nostra paura di morire. Ce l’ha restituita intatta, recuperandola dalle memorie familiari e dalla tradizione popolare dove giaceva come una leggenda, trasformata in letteratura, anestetizzata dalla distanza e incagliata nel vuoto di due generazioni che non avevano mai sperimentato l’angoscia suprema di una prova collettiva, ed erano fino a ieri indenni. Invece eccole coinvolte: in particolare una delle due generazioni, quella dei baby boomer eternamente al potere, sorpresa proprio mentre è diventata anziana, e quindi si trova improvvisamente scoperta, fragile ed esposta. Anzi, candidata”. Ecco scoperta un’altra rivelazione del virus, oltre a quella, salve le correzioni progressive più meno ipocrite, dell’irrilevanza degli “anziani con patologie pregresse”. A essere falcidiata, dallo statuto di micidialità del virus, è la generazione dei giovani quando i giovani si scopersero tanti e spavaldi, quando agirono come una generazione. Mauro scusi la mia conseguenza: la falce del virus miete i Sessantottini!