(foto LaPresse)

I palliativi che calmano solo gli ululati di chi grida “marcire in galera”

Adriano Sofri

Ribellioni in carcere e misure governative. Promemoria

Faccio solo un elenco, oggi. Un promemoria.

 

Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia. Dei 13 morti in due giorni di ribellioni in diverse carceri italiane disse al Senato, senza farsi sfiorare dalla tentazione di citarne i nomi, che erano morti “per lo più” di overdose.

 

Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Sostenne ostinatamente che non c’era sovraffollamento nelle carceri italiane, che era una questione di convenzioni lessicali. Bastava cambiare discorso, e gli spazi si allargavano.

 

I tredici detenuti morti. I loro nomi sono stati fatti solo ieri, dopo undici giorni, per quello che ho visto, da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, e a lui rimando. Di qualcuno accompagnati da circostanze: per esempio che tre di loro non erano ancora stati processati, dunque erano in carcere da non colpevoli, per esempio che altri stavano per uscire a pena finita, uno entro due settimane, e che uno usciva in semilibertà da tre anni tenendo un comportamento lodevole. Di altri solo nomi ed età. Erano italiani, magrebini (tunisini, marocchini, un algerino), un moldavo, un ecuadoriano, un croato. Una lapide potrebbe unire i loro nomi, luogo e data di nascita, luogo e data di morte, e tre sole parole, maiuscole: PER LO PIU’.

 

Una menzione meritano quei giornalisti – chiamo così, per economia, persone che scrivono in sedi che per economia chiamo giornali – i quali non si concessero nemmeno un quarto d’ora di riflessione prima di proclamare che la rivolta carceraria era frutto di una cospirazione ordita da tempo e guidata dalla criminalità organizzata.

 

Martedì 17 marzo: primo annuncio ufficiale sui detenuti positivi al coronavirus – dieci… – cui si sommano gli agenti penitenziari. In ritardo sulla società a piede libero: saprà recuperare.

 

Un decreto governativo prevede che i magistrati di sorveglianza – buona parte dei quali lo chiedevano da tempo – possano concedere con procedure più rapide il passaggio a pene alternative, la detenzione a domicilio (per chi ce l’ha) o il braccialetto (che non c’è), dei detenuti con un residuo di pena basso. Quasi 25 mila detenuti sono infatti in carcere con una pena residua inferiore ai tre anni, più di 16 mila con meno di due anni. Il ministero, e con lui il governo, hanno tirato al ribasso fino a indicare una pena residua tale che a usufruirne potranno essere solo 3.700, in pratica molti meno. Una misura irrisoria e derisoria. Sufficiente, certo, agli ululati di Lega e Fratelli d’Italia e fogli affini, quelli del marcire in galera. Motto aggiornato al nuovo virus: marciranno prima.

 

Fra le numerose esclusioni ordinate, ce n’è una in più: sono esclusi coloro che abbiano partecipato alle rivolte. La valutazione ufficiale è che siano stati 6 mila, e abbiamo visto di quale rango. Ho visto con dolore che anche persone impegnate a ridurre lo scandalo delle nostre galere hanno dato per scontata quella esclusione, non so se per un riflesso di legalismo frainteso, o per una distrazione dell’intelligenza. Osservo che la condizione delle carceri dichiarata da tempo insopportabile ha suscitato, con la goccia (un droplet, infatti) del coronavirus a farla traboccare, una ribellione che ha costretto le autorità a confessare la propria ottusità e rassegnarsi a qualche palliativo, escludendone coloro che non hanno sopportato l’insopportabile. Chi aderisce a una ribellione in carcere non è particolarmente delinquente, e forse non lo è affatto: se aveste anche solo un centesimo d’immaginazione, lo capireste. O se solo vi ricordaste di qualcuno dei film carcerari che vi commuovono. I nonviolenti esigono moltissimo da se stessi: può succedere loro di non farcela a prendere una distanza di sicurezza dai loro simili che divelgono le sbarre.

 

Ultimo punto: forse la prossima ribellione avrà per protagonisti gli agenti penitenziari. E non contro i detenuti.

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