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Dire “io non ho paura” è solo un fraintendimento

Adriano Sofri

L’eventualità di restare contagiati vuol dire la moltiplicazione delle possibilità di contagiare altri

In apparenza, ci si divide fra chi “non ha paura”, e proclama di fare come se niente fosse, e chi “ha paura”, e modifica più o meno le sue abitudini. Mi pare che l’equivoco stia qui: che ciascuno di noi può credere di “aver paura” o no per sé, come se la cosa si esaurisse nell’eventualità di restare contagiati e affrontare l’incidente. Piuttosto, l’eventualità di restare contagiati vuol dire la moltiplicazione delle possibilità di contagiare altri. Dunque la rivendicazione – “Io non ho paura” – non è una manifestazione di coraggio personale, bensì di un fraintendimento. Fraintende la situazione in cui si troveranno i contagiati quando il loro numero eccederà la capienza di luoghi e la disponibilità di persone incaricate delle cure. Può succedere che i contagiati precoci, oggi riguardati come sfortunati, si rivelino al contrario privilegiati per l’attenzione che ricevono, in strumenti e personale, rispetto a pazienti futuri che non ne potranno usufruire. Si immaginano ospedali da campo, si propone di metter su “decine di migliaia di nuovi reparti di rianimazione”, come se le rianimazioni fossero spazi improvvisati in una tenda e non impianti e macchinari complessi e sofisticati che alimentano i respiri e il battito dei cuori e l'introduzione di liquidi nei corpi, collocati in ambienti appositi. La rarefazione e il diradamento dei rapporti fra le persone è insieme un interesse dei singoli e della comunità: nessuno decide solo “per sé”. Ebbi un’esperienza forte della rianimazione, e voglio riportare qui un brano di quel che ne scrissi allora, nel 2006, a proposito dei “posti” disponibili: e si trattava di una situazione ordinaria, non di una pandemia.

 

“Si libera il posto guarendo, o morendo. Non di rado i rianimatori, alle prese con il posto, devono scegliere fra l’uno e l’altro: fra il ragazzo del motorino e l’anziano cronico. Per liberare un posto, si può trasferire l’occupante a un’altra rianimazione provvisoriamente disponibile: è un rischio. Si può staccare, in favore del nuovo arrivato che può farcela, un malato che non ha possibilità di sopravvivere (ma allora perché era attaccato? I parenti, il rischio legale, l’accanimento…). Ma se si stacca per liberare il letto si perdono gli organi per il trapianto: un candidato alla morte cerebrale si può far aspettare. Si può arrangiare un letto in più, in qualche angolo: ma vuol dire ridurre l’assistenza per tutti. Allora? Si decide, si sceglie. Tutti i giorni è così, là dentro, tutte le notti”.

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