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Perché la ricca Milano attira gente ma non vuole più fare bambini?

Maurizio Crippa

Nel 2019 il capoluogo lombardo ha superato il milione e 400 residenti. Frutto però più della crescita dei "milanesi acquisiti" che dei "nuovi milanesi"

Con orgoglio la città ha festeggiato, assieme all’inizio del 2020, i dati demografici che certificano un altro successo meneghino: Milano ha superato il milione e 400 mila residenti, con 40 mila nuovi milanesi arrivati soltanto nel 2019. Era dagli anni 90 che la popolazione non raggiungeva questi livelli. Un segno ulteriore che Milano attrae, è “the place to be”, perché offre possibilità di lavoro, di studio, di crescita professionale, di inserimento sociale: si diventa milanesi in fretta. Certo, la forza attrattiva delle grandi città è un trend mondiale e ben noto (poi va interpretato: il ministro per il Sud ha detto che Milano “non restituisce abbastanza”, ma forse dovrebbe interrogarsi sul perché altre aree ugualmente urbane italiane i cittadini li perdono: secondo Fondazione Agnelli da Torino se ne vanno 500 persone al mese). È quindi giusto che la capitale economica festeggi se stessa e il suo momento magico anche demografico. E che lo faccia celebrandosi anche come città dei diritti (una nota molto cara alla giunta Sala), attrezzata per essere inclusiva: per gli italiani che scelgono di trasferirsi qui, per gli immigrati alla prima avventura speranzosa, per i professionisti e gli imprenditori stranieri che in città cercano non solo una opportunità ma anche la qualità di vita.

 

Poi c’è un però, cioè un dato negativo e significativo, che tutti hanno registrato ma quasi nessuno commentato seriamente: nel 2019 Milano ha registrato anche il dato di nascite più negativo degli ultimi cento anni: solo 9.671, con un saldo fortemente negativo tra morti e nascite. Insomma: a far crescere la popolazione di Milano non sono i “nuovi milanesi”, ma i milanesi “acquisiti”. Non è ovviamente una questione di campanilismo, ma di interrogarsi sulla direzione di marcia della nostra città, una di quelle che i demografi definiscono ormai “post familiare”. Non si fanno più figli neanche in un contesto estremamente favorevole al ricambio biologico (per usare volutamente un’espressione priva di connotazioni morali) come la ricca Milano.

 

Di solito, e con buone ragioni ovviamente, la propensione “al di sotto del ricambio demografico” che gli italiani e le italiane mostrano viene spiegata sotto un profilo socio economico: è aumentata la precarietà, non ci sono servizi (asili nido, ecc) sufficienti, per una donna un figlio significa ancora scegliere tra famiglia e lavoro. C’è una parte di vero, ovviamente. Ma il caso Milano permette, se non di ribaltare il paradigma, di sottoporlo a una revisione. Questa è una città ricca, dove si lavora, dove vengono ad abitare giovani con buone prospettive economiche (per gli altri, c’è l’hinterland) e in cui i servizi sociali e di welfare funzionano. Non è “il precariato” a impedire di avere figli.

 

Una ricerca europea di un paio d’anni fa, “Exploring the childless universe: Profiles of women and men without children in Italy”, rilevava che con l’aumento del grado di istruzione e dei gradi di carriera diminuisce ancora di più la propensione a fare figli. E c’è ad esempio da notare che il calo delle nascite riguarda tanto le donne italiane che straniere, segno di una assimilazione culturale avvenuta. Dunque è un modello sociale, culturale, di come si immagina la propria vita e il proprio futuro, e non solo un problema economico. Ma bisognerebbe anche sapere che la crescita ormai sotto zero della popolazione avrà, nonostante l’immigrazione, dei costi economici e sociali importanti. Ma è soprattutto l’impalpabile, eppure evidentissimo “indice di fiducia nel futuro” che determina le scelte, soprattutto dei giovani. L’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, nel suo Discorso alla città per Sant’Ambrogio, un invito alla positività intitolato “Benvenuto futuro!”, ha parlato in questi termini anche della demografia: “Il futuro sono i bambini. Una crisi demografica interminabile sembra desertificare il nostro paese e ne sta cambiando la fisionomia… Le prospettive sono problematiche, ma ancora più inquietanti sono le radici culturali: perché nei paesi dove sono possibili le migliori condizioni di vita nascono pochi bambini? Perché in Europa è diffusa una mentalità così ripiegata su di sé, da spaventarsi della vita e da rassegnarsi al declino? La nostra società ha forse deciso di morire?”. Sono domande a cui anche una città ricca e attenta ai diritti come la nostra dovrebbe prestare attenzione.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"