La concept pharmacy? Poteva nascere solo dal mito della farmacia Erba

Fabiana Giacomotti

Duecentoquarant’anni dopo lo sfratto ad opera dell’Accademia, l’antichissima bottega di ritrovati curativi è tornata, da pochi giorni, a prendere spazio sulla via Fiori Oscuri

Se in “Tolo tolo” Checco Zalone manda a rotoli il concept sushi aperto a Spinazzola di Puglia nel giro di due mesi, traslato fittizio di una possibilità concreta, forse non poteva accadere altrove che a Milano di vedere un vecchio e fetente sushi bar trasformarsi in una farmacia. Anzi, di tornare a far svettare le insegne dell’impresa più antica della città, l’antica Farmacia di Brera da cui presero le mosse le fortune di Carlo Erba, santo patrono dei sofferenti di cefalea, degli anemici e anche dei cineasti, essendo stato il prozio di Luchino Visconti. Visto che il tempo è galantuomo, duecentoquarant’anni dopo lo sfratto ad opera dell’Accademia e dopo le bombe del 1943 che ne avevano distrutto le boiserie e la quadreria, l’antichissima bottega di ritrovati curativi, un’istituzione milanese, è tornata, da pochi giorni, a prendere spazio sulla via Fiori Oscuri, con insegna importante, vasi antichi di ceramica, tre piani fra vendita, laboratorio di analisi, trattamenti al sale e storytelling adeguato. Fondata nel 1591 dai padri Gesuiti che avevano occupato i locali dell’ordine eretico degli Umiliati, scacciati a fucilate dopo l’intervento di Papa Pio V, la Farmacia aveva conosciuto una prima grande fioritura alla fine del Seicento grazie alle pillole di padre Giovanni Cometti, chimico esperto, a cui è tuttora dedicata l’insegna e anche uno dei ritratti all’ingresso.

 

Dopo vari passaggi di mano nell’epoca d’oro dell’Officina Farmaceutica che, alla fine del XVIII secolo, riforniva anche la Casa Reale D’Austria, nel 1837 le redini erano passate a uno speziale vigevanese, Carlo Erba. Brillante e abile, in poco tempo aveva capito che l’erboristeria sarebbe stata soppiantata dalla chimica e si era dedicato alla preparazione di sali di ferro, bismuto chelato per l’ulcera peptica e il celebre tamarindo. In quelle poche stanze era stata costruita la prima grande industria farmaceutica italiana e, pochi metri più in là, dopo il fallimento a metà dello scorso decennio, ha ripreso vita fino a riprendersi la via anche l’impresa, ad opera di una biologa toscana di carattere, Michela Chiusa. In poco tempo, con il marito Stefano Danesi, ha rivitalizzato perfino il laboratorio galenico: un servizio che, in quegli spacci della compressa che sono diventate le farmacie, rappresenta un plus almeno quanto il “reparto bellezza”, balocchi e profumi, al primo piano dei 370 metri quadrati rivestiti in boiserie bianca. I circa duemila libri della farmacia distrutta dalle bombe della Seconda guerra mondiale sono conservati ora alla biblioteca Braidense, di fronte, ma la tenace biologa ne ha già esposti parecchi della propria collezione.