Con la forza dell'Ucraina

Rimandare di nuovo l'ingresso di Kyiv nella Nato è un errore. Intervista allo storico Serhii Plokhy

Paola Peduzzi

L'Ucraina è il paese più capace dell'Alleanza: il precedente del 2008, le (immaginarie) linee rosse di Putin e la ricostruzione di una nazione che non vuole rifarsi com’era, ma proiettarsi nel futuro

La promessa fatta alla Russia dagli Stati Uniti sulla non espansione della Nato verso est “è una teoria del complotto”, dice Serhii Plokhy, professore di Storia ucraina e direttore dell’Istituto di ricerca ucraino di Harvard: “La questione fu posta alla fine degli anni Ottanta mentre si discuteva della riunificazione della Germania, ma non ci fu alcun accordo e non fu fatta alcuna promessa: non esiste infatti alcun documento firmato dalle parti e lo stesso Michail Gorbaciov, che a quegli incontri partecipò, ha in seguito confermato che di promesse in questo senso non ce ne sono mai state”. Secondo Plokhy, l’espansione della Nato non è comunque la ragione – la “provocazione”, come dicono i filorussi – che ha spinto Vladimir Putin a invadere l’Ucraina: “Questa guerra è iniziata nel 2014 e allora il problema per Mosca non era l’ingresso di Kyiv nella Nato ma l’associazione dell’Ucraina con l’Unione europea. Putin cercò di impedire quell’accordo prima corrompendo l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich (con 15 miliardi di dollari, ndr) e poi inviando le sue truppe in Crimea e nel Donbas. Se davvero l’espansione della Nato fosse la ragione che ha spinto Putin a invadere l’Ucraina l’anno scorso, mi sarei aspettato che la Russia spostasse le sue truppe lungo il confine con la Finlandia dopo la sua adesione all’Alleanza atlantica. Mi sembra che nessun soldato russo sia stato spostato dall’Ucraina per andare a rafforzare il confine tra la Russia e la Nato, che intanto è raddoppiato”. Putin ha invaso l’Ucraina perché è l’Ucraina, non c’entra la Nato e non c’entra l’occidente – o forse c’entrano soltanto nella misura in cui avrebbero potuto proteggere di più l’Ucraina.  

 

Plokhy ha scritto molti saggi storici, l’ultimo, “Il ritorno della Storia. Il conflitto russo-ucraino” edito da Mondadori, contiene nelle prime 150 pagine un ripasso fondamentale della storia ucraina, russa e occidentale dalla caduta del Muro di Berlino fino all’inizio di quest’anno. E’ fondamentale perché spazza via questa storia della promessa mai fatta e molte altre falsità che ricorrono nella propaganda filorussa (ultimo, se si escludono i troll, Moni Ovadia sul palco dei   5 stelle lo scorso fine settimana), ma anche perché permette di comprendere l’attualità di questi giorni: quanto è pericoloso rimandare l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e quanto è pretestuoso dire che l’Ucraina sia corrotta per darle meno sostegno finanziario. Con tutta probabilità al vertice di Vilnius dell’Alleanza atlantica il mese prossimo non si concluderà granché sull’ingresso dell’Ucraina: se c’è una promessa non mantenuta in questa storia è semmai questa, la tanto cercata membership di Kyiv nella Nato, balenata più volte negli ultimi trent’anni e mai conquistata. “Oggi l’Ucraina è integrata dal punto di vista tecnico nella Nato come non lo è mai stata prima e più di qualsiasi altro membro dell’Alleanza – dice il professor Plokhy – Ma dal punto di vista politico continuiamo a sentire quel che si diceva nel 2008: le porte della Nato sono aperte e l’Ucraina diventerà partner della Nato”. 

 

Allora, sia l’Ucraina sia la Georgia fecero richiesta formale di ingresso nell’Alleanza, entrambi i governi erano convinti che quello fosse l’unico modo per proteggersi dall’aggressività russa: quando non se ne fece nulla, quando la Nato chiuse le sue porte, non soltanto fu frustrata l’ambizione di questi due paesi, ma tale decisione alimentò l’idea putiniana che la protezione occidentale per questi paesi fosse soltanto parziale. “L’Ucraina e la Georgia si ritrovarono esposte e non protette – dice Plokhy – Ripetere oggi questo errore è un invito a nuovi conflitti in futuro”. Plokhy racconta la storia del vertice di Bucarest della Nato all’inizio dell’aprile del 2008, quei tre giorni in cui la promessa fatta a Kyiv e a Tbilisi in particolare dagli Stati Uniti di George W. Bush si infranse. Poi l’occasione non si presentò più, nemmeno quando quattro mesi dopo Putin invase la Georgia, nemmeno quando sei anni dopo Putin invase l’Ucraina. Trovare una spiegazione per le cautele di oggi è però più difficile, visto che mai l’occidente è stato tanto unito nell’isolare la Russia (un capitolo del saggio di Plokhy è intitolato: “Il ritorno dell’occidente”), visto che non c’è paese al mondo più capace di utilizzare le armi della Nato quanto l’Ucraina e visto che Putin ci ha fatto superare il timore di una sua reazione bellicosa scatenando la guerra.

 

“Molti politici occidentali pensano che l’ingresso nella Nato sia una linea rossa per Putin – spiega Plokhy, anche se mi ha già detto che una ragione vera per dire di no oggi all’Ucraina non la riesce a trovare – E quindi se si varca questa linea, il presidente russo potrebbe intensificare la guerra o utilizzare armi nucleari. Ma penso che questi politici non abbiano idea se questa linea rossa esista per davvero e, nel caso, dove sia piazzata o dove Putin l’abbia piazzata. Dovremmo preoccuparci delle linee rosse sorpassate da Mosca più che delle linee rosse che potremmo superare noi, se il presidente russo è riuscito a convincere i russi che sta denazificando l’Ucraina può manipolare come vuole anche la questione della Nato”, lo sta già facendo. Preoccuparsi delle reazioni di Putin è un grande classico della dottrina realista in politica estera, tanto cara a buona parte dei media italiani (parliamo brevemente del famoso politologo americano John Mearsheimer,  che è spesso citato da Plokhy nel suo libro perché negli anni Novanta era contrario al disarmo nucleare degli ex paesi sovietici, “cosa assolutamente corretta”, ma che oggi è convinto che vada rispettata l’ambizione da superpotenza della Russia. Dice Plokhy: “Mearsheimer non è anti ucraino, Mearsheimer crede nelle sue stesse teorie, è esclusivamente pro Mearsheimer”).

 

Mentre cerchiamo di interpretare le possibili reazioni di Putin, Putin sta distruggendo l’Ucraina, che dovrà essere ricostruita. Oggi a Londra si apre la Ukraine Recovery Conference, dove si discuterà del futuro del paese quando la guerra sarà finita. Plokhy, che è ucraino e che ogni giorno sente i resoconti della distruzione dai suoi famigliari e amici che vivono nella regione di Zaporizhzhia da cui proviene, dice una cosa importante: “Gli ucraini non vogliono ricostruire quello che c’era prima dell’invasione, vogliono costruire una nuova Ucraina proiettata in avanti”. Questa spinta verso il futuro è andata di pari passo con l’ambizione occidentale e democratica del paese: Plokhy spiega molto bene il bivio in cui si sono trovate la Russia e l’Ucraina dopo il crollo dell’Urss: erano nello stesso punto, hanno scelto strade diverse. L’Ucraina ha trovato “nella democrazia il modo per tenere insieme il suo pluralismo sociale e culturale, per accomodare le sue diversità interne”, ed è per questo che ha difeso e difende questa democrazia in modo tanto vigoroso, perché è il presupposto stesso della sua esistenza e della sua indipendenza. La Russia no, la Russia ha posseduto “un sesto della terra e non è riuscita a vincere la sua scommessa post imperiale”, è ricaduta nella  visione imperialistica della sua stessa storia. E’ anche per questo che la propaganda putiniana è immersa di nostalgia e di passato, mentre Kyiv non vuole rifarsi com’era, combatte per la propria sopravvivenza per garantirsi una vita tutta nuova. Combatte anche l’Ucraina, il paese cui chiediamo di rispettare standard di correttezza e morale che non rispettiamo nemmeno noi, contro l’immagine che l’occidente s’è fatta del paese: “La corruzione è stato un grande problema, lo è in parte ancora, ma è stata anche molto esagerata – dice Plokhy – L’idea che l’Ucraina fosse uno stato fallito è stata spazzata via dal modo con cui si difende e dalla fiducia che gli ucraini oggi hanno nei confronti dello stato.

 

Negli ultimi tre anni sono accadute due cose che hanno cambiato molto il paese: una è la leadership di Volodymyr Zelensky, che ha avviato la lotta alla corruzione rivedendo del tutto il ruolo degli oligarchi e il loro spazio nell’economia e nella politica ucraina. La seconda è la guerra: le zone orientali e meridionali del paese, che erano la base principale del potere degli oligarchi, non esistono più. Abbiamo tutti seguito il dramma dell’acciaieria Azovstal a Mariupol: quell’enorme polo metallurgico era il regno dell’oligarca Rinat Akhmetov, e oggi non esiste più. Gran parte dei settori più importanti dell’industria ucraina dipendevano da oligarchi, ma oggi, con la leadership di Zelensky e con la distruzione dell’economia a causa della guerra di Putin, la situazione è molto diversa, si è creata una nuova realtà”. E’ in questo nuovo mondo che si colloca la ricostruzione dell’Ucraina, che proprio come il Piano Marshall dopo la Seconda guerra mondiale, sarà strutturata con meccanismi, condizioni e regole – “più che della corruzione mi preoccuperei di non creare dei monopoli” – con un’attenzione particolare all’agricoltura, stremata dalla guerra, e alla tecnologia. “E’ una situazione ideale per gli investitori stranieri”, dice Plokhy, “si può costruire un paese nuovo, democratico, con un popolo che patisce una guerra terribile, ne paga il costo più alto ma non perde la forza di resistere e di immaginarsi nel futuro”, quando la guerra sarà finita. 
  

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi