Le manifestazioni in Ucraina che presero il nome di Euromaidan sono iniziate il 21 novembre del 2013 e si sono concluse il 23 febbraio dell’anno dopo

Il sogno svanito di Euromaidan

Micol Flammini

Le voci della generazione ucraina che nel 2014 in Piazza Indipendenza a Kiev chiedeva di diventare più simile all’Europa e si è ritrovata mezza annessa alla Russia

C’era di tutto in quella piazza. C’erano gli arrabbiati, c’erano gli speranzosi, c’erano i curiosi, c’erano i violenti. C’era tutta l’Ucraina, arrivata a Kiev per dire qualcosa. La rabbia di Euromaidan era una forza mai vista, era contro un sistema che costringeva la nazione al ribasso, era una rabbia piena di amore per l’Europa, carica di sogni. “Tutto sembrava irreale, la gente, gli slogan. Era il nostro paese che si mostrava così come era. Estremamente arrabbiato ed estremamente povero. Eravamo tanti e faceva un freddo che congelava il respiro”, racconta Andrii al Foglio. Il ricordo di Euromaidan, delle proteste in Piazza Indipendenza iniziate nel 2013, ha un significato importante per l’Ucraina. Si pensava che la nazione sarebbe cambiata per sempre. Che quelle manifestazioni, con i loro scontri, i morti, con quelle bandiere ucraine che sventolavano al fianco di quelle europee, avessero lanciato un messaggio, il messaggio di una piazza che voleva sentirsi un po’ più europea. I giovani che erano lì speravano che un giorno avrebbero visto l’Ucraina trasformata. Chi aveva sentito l’aria di Europa, che tira poco più in là, giusto a occidente di Kiev, credeva che improvvisamente quell’aria si sarebbe sentita anche per le strade della capitale ucraina, anzi, nel pieno dei mesi invernali, sembrava che si iniziasse già a sentire. “Noi siamo molto diversi dai nostri genitori – Andrii oggi ha trentadue anni – Loro vivevano dall’altra parte della Cortina di ferro e non avevano idea di quello che accadesse dall’altra parte. Noi sappiamo tutto. Abbiamo viaggiato e abbiamo studiato fuori, ma abbiamo anche noi la nostra Cortina di ferro, che è giusto quel confine tra Ucraina e Polonia. Noi però sappiamo tutto quello che accade dall’altra parte, sappiamo che c’è il rispetto dei diritti umani, che c’è la pace, che si può viaggiare liberamente, arricchirsi, che il mondo è immenso”.

 

“Perché l’Ue dovrebbe combattere per noi se abbiamo dimostrato che la nostra classe dirigente è fatta di corruzione?”

Le rivolte a Kiev scoppiarono perché il governo ucraino si era rifiutato di firmare l’accordo di associazione tra Ucraina e Unione europea: era un patto per la creazione di un’area approfondita di libero scambio, il Dcfts, Deep and Comprehensive Free Trade Area. Viktor Yanukovich, l’ex presidente, preferì riprendere le relazioni con Mosca anziché con Bruxelles. La Russia è rimasta uno spettro per molti ucraini, fa ancora paura e a Piazza Indipendenza la richiesta era anche quella di formare un governo forte, pronto a opporsi alle ingerenze di Mosca e alle sua forza che da oriente non ha mai smesso di spingere sul confine. Le proteste scoppiate il 21 novembre del 2013 chiedevano che Kiev seguisse un percorso diverso, che iniziasse ad avere relazioni più intense con l’Europa, che si sfilasse dall’orbita di Mosca dove è sempre rimasta, nonostante la scomparsa dell’Urss. Per l’Ucraina il tempo si è fermato al 1991. “Chiedevamo di avvicinarci a Bruxelles, poi abbiamo iniziato a chiedere le dimissioni di Yanukovich. Più passava il tempo più in piazza arrivava gente, più arrivava gente più si aggiungevano richieste. I motivi che fanno dell’Ucraina una nazione scontenta sono tanti, ogni gruppo di manifestanti aveva il suo e anche questo ha fatto sì che il movimento fallisse”, dice Andrii, che ora vive a Varsavia e lavora per una compagnia di trading. Ha studiato in Polonia, in Europa: “Se ci sono riusciti i polacchi, gli slovacchi, gli ungheresi, continuiamo a domandarci perché non dovremmo riuscirci noi”. Andrii fa parte di quella generazione poliglotta, viaggiatrice, che si sente europea senza poterlo essere. “Se avessi visto che dopo Euromaidan le cose avessero iniziato a cambiare un po’, sarei stato disposto a tornare a vivere a Leopoli, città metà ucraina e metà polacca. Ma che quella piazza stava fallendo lo abbiamo capito subito, appena è arrivata la violenza”. A Piazza Indipendenza ci sono stati cento morti, più di settanta tra i manifestanti, quasi venti tra la polizia, chi raccontava le proteste parlava di una guerra civile. Il 30 novembre è iniziata la repressione da parte del governo, più arrivavano le forze dell’ordine, più il tono delle manifestazioni si inaspriva. A gennaio del 2014, il governo approvò una legge che aboliva il diritto di manifestare, la gente iniziò allora a prendere d’assalto gli edifici dei consigli regionali, nelle città a maggioranza russa le persone cercavano di occupare le sedi dei governatori locali. L’Ucraina era incontenibile, era rabbia, era speranza, era rivendicazione. “Abbiamo smesso di illuderci a fine febbraio, quando sono arrivati i cecchini. Adesso chi se li ricorda i cecchini?”. Andrii ha ragione, dei cecchini non si parla più, vennero strumentalizzati dalle varie fazioni politiche, il blog di Beppe Grillo riprese false testimonianze, diffuse da Russia Today, di persone che affermavano che era stata l’opposizione a ordinare la strage. Sui tetti di Piazza Indipendenza c’erano i cecchini, come in guerra, e Andrii racconta che lui quella mattina non era lì, provò rabbia e fallimento, ma fu quell’episodio che lo spinse ad andarsene di nuovo: “Certe cose non possono accadere in una nazione pronta a diventare europea”. Il 21 febbraio finì Euromaidan, terminarono le proteste e non si sentì più parlare dei cecchini. Yanukovich fuggì e dopo iniziò la crisi in Crimea. La Russia aveva trovato il suo varco, un’Ucraina sempre più debole, con dei confini friabili. Dopo la Crimea, il Donbass e l’arrivo a Kiev di un presidente, Petro Poroshenko, che prometteva di combattere contro la corruzione, contro la criminalità e contro Mosca. “Mia madre è russa ma di nazionalità ucraina, mio padre è polacco, ma di nazionalità ucraina, vivono a Poltava”, dice Anna al Foglio. “Quando ho saputo delle proteste a Kiev ero euforica. Io e le mie amiche eravamo nella casa dello studente, guardavamo su Facebook le foto e i post di chi era lì. La nostra bandiera ucraina blu e gialla, il cielo e il grano, che veniva agitata assieme a quella europea. Pensavo: ci siamo, ora tocca a noi”. Anna è una traduttrice, parla ucraino, russo e polacco perfettamente: “Sono tre variazioni sul tema diceva mia nonna, una cantante lirica, a mio nonno quando mia madre stava per sposare mio padre. E mio nonno insisteva dicendo che sì, saranno pure variazioni, ma non bisogna dimenticare che il tema è la lingua russa. Niente di più sbagliato dal punto di vista filologico, ma mio nonno era russo e i russi sono così”. Quando Euromaidan finì non ci fu nemmeno il tempo di ragionare sulle proteste, sul loro valore effettivo e simbolico. Passarono appena due giorni, sparirono le bandiere europee e il paese fu costretto a focalizzarsi, ancora una volta, sull’oriente. La Crimea, la penisola a maggioranza russa ceduta da Chruscev all’Ucraina nel 1954, approfittò della crisi di governo per indire un referendum e dichiarare la volontà degli abitanti della Crimea di separarsi dall’Ucraina. La consultazione si tenne il 16 marzo, nel frattempo la Russia occupò la penisola anche militarmente, il 97 per cento delle persone votò per l’indipendenza ma né l’Unione europea né la Nato hanno riconosciuto la legittimità del voto. “Il referendum non mi ha meravigliata, la Crimea è altro, è una zona molto ricca, più ricca di tante altre regioni ucraine, ma nessuno poteva dirsi stupito quando gli abitanti di Sebastopoli decisero di diventare russi. Non mi stupisce nemmeno che ci sia dietro Mosca. Lo so che per gli europei questo genere di assuefazione alla prepotenza della Russia fa un effetto molto strano – dice Anna – Ma noi siamo cresciuti con un senso di timore e riverenza nei confronti dei russi, che per molti si è tramutato in odio. Io evito di tornare in Ucraina, si possono dire molte cose sulla Polonia, sul nazionalismo del governo, ma è sempre un pezzo di Europa e le libertà che provo qui non le troverei mai nella mia nazione. Nei giorni di Euromaidan organizzavamo manifestazioni a sostegno di chi era a Kiev a protestare, per noi era una festa. Ci dipingevamo una guancia con la bandiera dell’Ucraina e l’altra con quella dell’Europa, era bella la solidarietà, era emozionante sentir parlare di Ucraina”.

 

“Hanno fatto bene quelli che se ne sono andati, ma io non voglio andare in Europa, io voglio portare l’Europa qui”

La volontà di Kiev che era venuta fuori, bella, irruente, sfacciata, durante i tre mesi di Euromaidan, fu presto dimenticata. E’ scoppiata una guerra nelle province orientali, nel Donbass, una guerra tra l’esercito ucraino, debole e disorganizzato, da una parte e i separatisti filorussi aiutati dai volontari e dai mercenari mandati da Mosca, insieme al denaro e alle armi, dall’altra. “La nostra guerra è raccontata male, ma non è colpa dell’Europa o della Nato – dice Ruslana – La colpa è solo di Kiev, dell’arte di piangersi addosso. Il bello di Euromaidan fu questo: non piangevamo, eravamo arrabbiatissimi. Eravamo infuriati perché ci vedevamo negare tutti i diritti perché il governo aveva i suoi affari da portare avanti e noi volevamo stare con Bruxelles”. Ruslana vive a Kiev e lavora per una ong che si occupa dei diritti delle minoranze: “Io mi sento in guerra da quattro anni, una guerra quotidiana, e come me lo sono tutti i giovani ucraini che hanno avuto sufficiente istruzione per capire che se si vuole credere nell’Ucraina libera non bisogna per forza essere nazionalisti. Hanno fatto bene tutti quelli che se ne sono andati a respirare un po’ di Europa, ma io non voglio andare in Europa, voglio portare l’Europa qui”. L’Ucraina non ha mai smesso di sentirsi strangolare dalla Russia: “E’ sempre stata una presenza costante, tutti noi abbiamo dovuto imparare il russo, le scuole e le università ci proponevano programmi di studio per studiare a Mosca e noi rispondevamo: ma non possiamo andare a Bruxelles? Euromaidan è un movimento fallito perché abbiamo smesso di arrabbiarci, c’è soltanto la violenza dei nazionalisti, ma quella è un’altra cosa”.

 

“Abbiamo smesso di illuderci a fine febbraio 2014, quando sono arrivati i cecchini. Adesso chi se li ricorda i cecchini?”

La guerra tra Russia e Ucraina va avanti da quattro anni, i morti sono stati più di quattromila. I danni economici per i porti e le province orientali sono enormi, Mosca è arrivata a imporre un blocco navale grazie alla costruzione del ponte che collega la Crimea alla Russia. Il 31 marzo prossimo ci saranno le elezioni in Ucraina e i cittadini dovranno scegliere un nuovo presidente. Quando a giugno del 2014 arrivò Petro Poroshenko, il proprietario di un’industria dolciaria, aveva promesso che avrebbe reso Kiev un posto diverso, che avrebbe combattuto contro la corruzione, che avrebbe riaperto tutte le trattative interrotte con l’Unione europea e la Nato: “Sapevamo che non sarebbe stato semplice, ma il problema di questo presidente è che non ha voluto nemmeno provarci”, dice Andrii. Gli attivisti che lo avevano sostenuto si sono ricreduti, sono iniziate le campagne contro Poroshenko e il suo partito, che non hanno mai fatto le riforme che avevano promesso. Le tensioni in Ucraina nell’ultimo periodo sono aumentate anche a causa del clima da campagna elettorale che ha acceso i toni del nazionalismo. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano che dall’inizio dell’anno sono stati almeno cinquanta gli attacchi contro gli attivisti soprattutto da parte di gruppi di estrema destra, l’ultima ad essere colpita è stata Kateryna Handziuk, sfregiata con l’acido e morta dopo undici interventi. “C’è un problema fondamentale. Studiando la situazione nel mio paese dall’esterno vedo che Poroshenko, anziché metterci sulla strada delle riforme, si è comportato come avrebbe fatto il suo nemico Vladimir Putin. Come il presidente russo ha sperato di trasformare la chiesa e l’esercito nei pilastri del suo potere”, spiega Oleh, giovane dottorando ucraino di Storia contemporanea all’Università Humboldt di Berlino. “Prima la mossa dello scisma, è riuscito a staccare Kiev dal patriarcato di Mosca, ora la legge marziale e le foto in uniforme. Ma Poroshenko dimentica una cosa. La Russia per l’Ucraina è sì un problema enorme, siamo sempre sotto assedio, ma perché l’Unione europea dovrebbe combattere per noi se in questi anni non abbiamo fatto altro che dimostrare che la classe dirigente ucraina come quella del Cremlino è fatta di di corruzione, clientelismo e poco rispetto per i diritti umani? Non era questo il sogno di Euromaidan”.