Soldato ucraino fa la guardia a bordo di una nave militare chiamata "Dondass" ormeggiata a Mariupol, porto del Mar d'Azov il 27 novembre 2018 (foto LaPresse)

L'Ucraina è un test per il mondo libero

Paola Peduzzi

Trump non vedrà Putin al G20. Il blocco navale russo smaschera i sovranisti

Milano. Donald Trump non incontrerà Vladimir Putin al G20, ha tuittato ieri il presidente americano in volo sull’Air Force One diretto a Buenos Aires. “Le navi e i marinai non sono stati restituiti all’Ucraina da parte della Russia”, ha scritto Trump, quindi non ci incontreremo: speriamo ci sia un’altra occasione “quando questa situazione sarà risolta”. Il commento da parte del presidente americano era molto atteso, in questi giorni si era limitato a dire che la situazione non gli piaceva affatto, prendendo le distanze da tutti, mentre i suoi, in particolare la dimissionaria ambasciatrice all’Onu Nikki Haley, usavano un linguaggio ben più duro. Il tono del tweet non è perentorio, Trump vede la possibilità di un ritorno alla normalità, le tre navi vengono restituite e tutto torna come prima.

   

Quel prima, quella normalità sono l’equivoco su cui si fonda l’intera questione ucraina, dal 2014 a oggi. L’Ucraina si arma, la Russia si arma, l’escalation continua, “è l’inizio”, come titolano alcuni giornali, insistendo al contempo sulla guerra in arrivo e sulla guerra dimenticata, equiparando l’aggressione ucraina – c’è il presidente Petro Poroshenko con la mimetica! – a quella russa, come se fossero di eguale misura, di eguale entità o di eguale efficacia.

  

Questa guerra nel cuore dell’Europa si trasforma, sposta il fronte, ma ripete da sempre lo stesso schema, che è poi lo schema imposto dalla Russia: l’occidente ci aggredisce tramite il suo alleato ucraino, noi ci difendiamo. Questo schema è una trappola in cui via via cadono tutti, politici e commentatori, una guerra permanente è una non guerra, non possiamo stare dietro a ogni sparatoria, a ogni militare ucraino sequestrato, a ogni battibecco da trincea: così si costruisce l’alibi alla nostra noncuranza.

  

Vengono pubblicate continue analisi sul perché dell’escalation: la popolarità di Vladimir Putin è in calo, e non c’è modo migliore di ricompattare il popolo russo di una prova di forza in terra straniera (ancor meglio se la terra non è poi così straniera, era russa fino a trent’anni fa); oppure, dalla parte ucraina, Poroshenko non sarà confermato alle prossime elezioni, deve mostrarsi forte, deve imporre la legge marziale, deve impedire a cittadini stranieri di attraversare il confine tra Ucraina e Crimea, deve chiamare le navi della Nato nel mare di Azov per scaricare sul conflitto la responsabilità dei suoi errori, e della sua irrimediabile incapacità di trainare una qualsivoglia ristrutturazione ucraina. Tutti hanno delle colpe e degli interessi, la provocazione è condivisa, la guerra c’è sempre quindi è come se non ci fosse mai: è su questo equivoco che si fonda la strategia russa in Ucraina, e nel resto dell’occidente.

   

Nell’equivoco rientrano parecchi fatti piuttosto gravi: un’invasione di terra nel Donbass da parte di soldati russi (gli omini verdi, che per il Cremlino formalmente non esistono, ma ricevono medaglie al valore); un’annessione territoriale (la Crimea) tramite un referendum non riconosciuto a livello internazionale; l’abbattimento di un aereo di linea (298 morti); un accordo multilaterale siglato a Minsk in due occasioni diverse sistematicamente violato; la costruzione di un ponte che collega la Russia alla Crimea progettato a un’altezza dal livello del mare tale da impedire il transito della stragrande maggioranza delle imbarcazioni ucraine. In questa ultima fase di scontro, tale dettaglio ingegneristico che abbiamo ignorato mentre guardavamo – e molti celebravano – “Putin camionista” che inaugura il ponte, ha mostrato i suoi effetti: da cinque giorni non arrivano navi nel porto di Berdiansk, specializzato nell’esportazione di grano; poco sotto il più importante porto di Mariupol’ aspetta quattordici navi bloccate allo stretto di Kerch. E’ un blocco navale premeditato, studiato dagli ingegneri persino, che dovrebbe far inorridire non tanto gli europeisti quanto i sovranisti che sul controllo di terre e acque non vogliono ingerenze di alcun tipo: ma questa è l’Ucraina lagnosa che la comunità internazionale ha selezionato per il ruolo della vittima, e così il soffocamento dell’economia dei porti del mare di Azov e i 145 membri della marina ucraina nelle mani dei russi sono soltanto uno strumento di provocazione.

    

Non scoppierà la guerra, non ce n’è bisogno, tornerà la normalità, perché è una normalità che porta ad annessioni di fatto di città e porti soffocati. Ma quel che è importante per chi prospera sull’equivoco, per noncuranza o per ideologia, è che, come scrive Julia Davis sul Wall Street Journal, “nulla di quel che accade in Ucraina resta in Ucraina”. E’ un test, per vedere che faccia facciamo, e quanto tempo ci mettiamo a voltarci da un’altra parte.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi