Le navi ucraine sequestrate dalla marina russa a Kerch (foto LaPresse)

Come fermare “l'annessione discreta” che Mosca sta facendo dei porti ucraini

Paola Peduzzi

Mentre Lavrov rifiuta la mediazione della Germania, Mariupol è sotto assedio. Il “lago russo” e le esportazioni interrotte verso l’Europa (cioè noi)

Milano. L’Ucraina ha “provocato intenzionalmente” la Russia entrando nelle acque territoriali della Crimea – Repubblica autonoma annessa alla Russia nel 2014, ma l’annessione non è riconosciuta a livello internazionale – nel mare di Azov e le potenze occidentali non dovrebbero alimentare le intemperanze ucraine e anzi dovrebbero dire a Kiev di smetterla, con le provocazioni. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, in visita martedì a Parigi ha escluso la possibilità di una mediazione straniera – si era offerta la Germania – e ha ribadito la posizione di Mosca: siamo stati provocati e abbiamo reagito sequestrando tre navi ucraine. Con la Russia è sempre così, che si parli di Ucraina, di Siria, di interferenze e manipolazioni: i primi ad attaccare sono gli altri, Mosca si difende. Il format è lo stesso – e funziona: la responsabilità degli scontri risulta almeno condivisa, come dice Donald Trump equiparando un paese sotto blocco navale al paese che esercita il blocco – e gioca su una costante: molte condanne, molta indignazione (“inaccettabile” è il termine più popolare), qualche proposta bizzarra – come inviare navi americane nel mare di Azov: sarebbe illegale senza il consenso russo – e una sostanziale passività. Come in Siria, anche nell’est dell’Ucraina vale la regola dello status quo, non tocchiamo niente ché altrimenti ci giochiamo quel minimo di stabilità conquistata.

 

Realismo e passività hanno iniziato a camminare a braccetto parecchio tempo fa, ma ecco: è bene non parlare di stabilità e sicurezza agli abitanti delle coste del mare di Azov. Prendiamo Mariupol’, un porto in cui, prima del 2014, transitavano 15 milioni di tonnellate di merci all’anno, metallo, acciaio, carbone, i prodotti della grande industria del Donbass che attraverso Mariupol’ esportava il 90 per cento dei suoi prodotti.

 

Nel 2014, i separatisti filorussi occuparono Mariupol’, ma le forze ucraine riuscirono a riprenderla, anche se nel frattempo erano stati fatti molti danni al porto e alle vie d’accesso alla città: Mariupol’ non è più tornata com’era. Il giro d’affari si è ridotto del 30 per cento e anche il porto più a sud, Berdyansk, in cui transitano soprattutto carichi di grano, ha perso soltanto quest’anno il 12,3 per cento delle esportazioni. La quantità delle merci in transito si è più che dimezzata. Con la costruzione del ponte sullo stretto di Kerch, che unisce il mare d’Azov al mar Nero, la situazione è collassata: almeno centoquaranta navi ucraine non possono più transitare perché non riescono a passare sotto il ponte, che è alto 35 metri – una misura che penalizza soltanto i cargo ucraini – e sono state perse commesse milionarie in pochi mesi. In più ci sono le ispezioni, sempre più frequenti e più lunghe: il Monde, in uno splendido reportage sul mare d’Azov pubblicato a ottobre, intervista il fondatore di Black Sea News, Andrii Klimenko, 59 anni, che lavorava per la Marina sovietica. Klimenko dice che dopo l’inaugurazione del ponte ha iniziato a vedere sui suoi schermi “un’immobilità”: le navi non si muovono. A luglio le ispezioni avevano tenuto fermi i cargo ucraini partiti dal mare d’Azov e diretti nel mar Nero per 57 ore, a settembre le ore erano 126. Immobilità significa blocco navale. E c’è chi cerca di portare direttamente le merci a Odessa, per eludere il blocco, ma questa parte di Ucraina è mezza distrutta e ci sono anche i blocchi a terra dei filorussi, i costi di trasporto vanno moltiplicati per otto e così Mariupol’ è come sotto assedio.

 

La Russia sta portando a termine “un’annessione discreta”, come la chiama il Monde, soffocando l’economia e l’autonomia dei porti ucraini. E’ qui che la comunità internazionale potrebbe agire: Mosca non aspetta che un’escalation militare per poter denunciare un’altra “provocazione”, un’altra aggressione. Invece le iniziative economiche a sostegno di Mariupol’ e delle sue esportazioni – che vanno per lo più in Europa, cioè da noi – sarebbero più utili ed efficaci, e meno costose e controverse dell’invio di materiale militare. Soprattutto minerebbero la strategia di Vladimir Putin, che nella nebbia della guerra permanente espande il proprio dominio. Così come si può insistere su una revisione dell’accordo tra Russia e Ucraina sulla gestione del mare d’Azov, che risale al 2003. Oggi il mare d’Azov viene chiamato il “lago russo”, ed è in questa definizione che sta la sintesi della passività occidentale: inviare navi americane è illegale, ma pure le annessioni di fatto lo sono.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi