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Trump, Putin e l'attrazione fredda

Stefano Cingolani

Nonostante un pollice alzato, aria di crisi del terzo anno nelle relazioni della strana coppia composta tra il presidente americano e quello russo. A chi conviene la loro affinità elettiva

A Parigi si sono solo sfiorati, in mezzo a quel rigido cerimoniale imposto da Emmanuel Macron per celebrare i cento anni dalla fine della Prima guerra mondiale; un rituale fatto a bella posta, secondo i maligni, per impedire che Donald Trump e Vladimir Putin potessero parlare a quattr’occhi. Ma il presidente francese ancora una volta non aveva calcolato la forza dell’imprevedibilità. E’ bastato un ammiccamento, un occhiolino, un cenno, un pollice alzato, per far saltare ogni steccato diplomatico. Trump non ha detto niente, ma il linguaggio del corpo ha parlato per lui, tanto da giustificare il nomignolo che gli avversari gli anno affibbiato: Trumputin. L’allusione naturalmente è a Grigorij Efimovic Rasputin, il diabolico monaco che aveva ammaliato la zarina Alessandra, curato l’emofilia dello zarevic Aleksej e influenzato lo zar Nicola II. Tuttavia, questa volta conviene pescare tra le perle di Broadway invece che nella biblioteca della storia e ricorrere a Neil Simon, il geniale commediografo che come pochi ha saputo rappresentare le labirintiche bizzarrie dell’amicizia, dell’affetto, della convivenza e della rivalità all’interno di una “strana coppia”.

 

Una tesi è che tutto cominci in tempi lontani e passi attraverso relazioni d’affari sapientemente sfruttate. La campagna del 2016

L’affermarsi della Cina pone un problema inedito. In un mondo tripolare, il dilemma del duplice nemico rende tutto più complicato

Come in ogni vicenda amorosa che si rispetti, nessuno è in grado di sapere quando è davvero scattata la scintilla, tanto meno quando il fuoco si spegnerà. Una scintilla c’è stata e il fuoco si spegnerà, queste sono le uniche due certezze sospese nel tempo e nello spazio. Se poi l’amore non ha a che fare con l’eros né soltanto con la simpatia (il sentimento che muove l’umanità secondo Adam Smith), ma con la politica, allora la nebbia si fa più fitta. Che Donald Trump nutra per Vladimir Putin un trasporto umano prima ancora che affaristico o presidenziale nessuno può negarlo. E’ una sintonia, una chimica personale, anzi una vera e propria affinità elettiva che supera persino i singoli eventi; è una di quelle molle che spingono a perdonare le liti, gli scontri, le incomprensioni, le scappatelle. L’innamoramento viene da lontano e la ricerca del fatal momento ha già prodotto centinaia di articoli, inchieste, rapporti, protagonisti non solo i reporter d’assalto o i santoni del giornalismo d’inchiesta, ma le barbe finte, i servizi segreti, la Cia, l’Fbi e via via spiando.

 

Una tesi è che tutto cominci in tempi lontani e passi attraverso relazioni d’affari sapientemente sfruttate. Cosa hanno a che fare, del resto, un ex Kgb e un palazzinaro newyorchese? La pista conduce a quando Trump era nei guai, le sue iniziative imprenditoriali, dai grattacieli ai casinò, perdevano a rotta di collo e riuscì a sbarcare a Mosca con quattrini probabilmente riciclati dalla mafia russa. La grande madre lo ha aiutato, salvato, abbracciato, e lui non lo può dimenticare. Ma si tratta di tornare indietro agli anni Ottanta. L’Unione sovietica, sia pur agonizzante, respirava ancora, Putin non era nemmeno all’orizzonte, quanto a The Donald pensava solo ai soldi e alle biondone slave, mentre in politica preferiva i democratici. La vicenda raccontata dal giornalista Craig Unger nel suo libro “House of Trump, House of Putin: the Untold Story of Donald Trump and the Russian Mafia”, può essere verosimile, anche vera, egli stesso però non riesce a trovare l’anello di congiunzione tra passato e presente.

 

La pista più vicina ci porta invece alla campagna elettorale americana, quando il Cremlino mette in moto una strategia di disinformatia in grande stile per colpire Hillary Clinton, utilizzando tutti i mezzi a disposizione, dal più antico, come il venticello della calunnia che spira di bocca in bocca, agli hacker e ai troll informatici. L’anno cruciale è il 2016, allora figure rilevanti del clan Trump e personaggi di primo piano impegnati a sostenere la sua campagna, stringono rapporti con emissari di Putin. E’ il Russiagate, un tormentone che ci accompagnerà per anni, con una impennata ora che la Camera dei rappresentanti è controllata dai Democratici e ancor più a mano a mano che ci avviciniamo alla campagna per la rielezione di qui a due anni. Dunque, ancora affari, ancora riconoscenza. E’ la tesi del kompromat, la compromissione, una interpretazione più plausibile, tuttavia anche questa parziale, e non basta certo a giustificare l’attrazione fatale. Non spiega il fragoroso applauso con il quale la Duma il 9 novembre 2016 accolse Vyacheslav Nikonov, leader del partito Russia unita, che annunciava la vittoria di Trump, una reazione considerata spontanea da tutti, anche dagli anti Putin. Non spiega soprattutto quel fluido che unisce personaggi divisi anche dalla lingua visto che si parlano solo attraverso gli interpreti. Più che ai docufiction o alle pagine dei verbali segreti (pur istruttive) bisogna dunque ricorrere alla psicologia dei due uomini e agli obiettivi che li accomunano.

 

Le ragioni di Putin sono più facili da comprendere. L’intera sua missione da quando ha preso il potere nel 2000 (dopo un breve anno da primo ministro nominato da Boris Eltsin), è restaurare la Grande Russia, prendendo prima il controllo delle risorse minerarie che rappresentano la ricchezza della nazione, finite nelle mani di incontrollabili oligarchi, alcuni dei quali nemici espliciti, e poi recuperando il prestigio internazionale del suo paese, fino a spolverare una potenza militare e nucleare tutta da ricostruire. Ha indossato molte maschere: quella della sirena che ha incantato molti in Europa, dalla Germania all’Italia; quella del lupo che ha spaventato i paesi del Baltico, il Mediterraneo del nord; quella dell’orso che ha dilaniato l’Ucraina e si è riappropriato della Crimea; quella della tigre siberiana pronta a saltare sulle repubbliche asiatiche un tempo parte dell’Urss. Ma non si è dimenticato nemmeno di metter su anche la lunga e folta barba del nazionalismo slavo e della chiesa ortodossa. Defensor fidei contro gli infedeli islamici. Paladino dei valori tradizionali. Crociato dell’uomo bianco. E qui ha incontrato i compagni di viaggio americani, quegli stessi che hanno visto il loro campione in un personaggio di per sé egocentrico, spregiudicato, lesto di mano e abbastanza vuoto di testa da poter essere riempito con il nuovo spirito del tempo. La rabbia e la frustrazione dell’americano bianco, conservatore, nemico giurato dei liberal politicamente corretti: è questo l’humus della svolta trumpiana e il brodo di coltura perfetto per i troll putiniani. Anch’esso, però, spiega solo una parte di questa storia complessa che si sta scrivendo davanti ai nostri occhi.

 

Le ragioni di Trump sono meno razionali rispetto a quelle di Putin, il quale segue con evidenza cartesiana una logica antica, la Realpolitik, la politica di potenza, maturata nell’Europa del Rinascimento, lontana, se non estranea alla cultura americana più profonda, radicata nel moralismo idealista dei puritani, dei quaccheri, dei calvinisti in generale. Il nemico della giovane repubblica di liberi e uguali prima è stata l’Inghilterra governata da una monarchia aristocratica, poi la Germania guglielmina e guerrafondaia, il nazismo e per più di 80 anni il comunismo sovietico. Anche chi non era conquistato dall’idealismo di Woodrow Wilson, anche chi ammirava Teddy Roosevelt che discuteva tenendo sempre un bastone dietro la schiena, non si sarebbe mai seduto a tavola con un tiranno. Qualcosa di profondo, invece, è cambiato nello stato d’animo e nello spirito della nazione, se ne è fatto interprete un bizzarro individualista, un capitalista di successo che rappresenta anch’egli una faccia importante del sogno americano. Trump vede in Putin se stesso con il colbacco, uno “molto sveglio”, uno “smart guy” che ha messo fuorigioco ogni opposizione, pronto a rompere liturgie e tradizioni consolidate per raggiungere il proprio scopo. Come quando il 30 dicembre 2016 il presidente russo sospese la rappresaglia contro l’espulsione di 30 diplomatici russi decisa dall’uscente Barack Obama. La vita è fatta di questi segnali, ancor più la politica. E se non sappiamo con certezza quando è scoccata la scintilla, possiamo dire che quella fu la fine del corteggiamento.

 

Il ménage successivo è fatto di alti e bassi, come in ogni coppia, anche nelle meno strane. L’esplodere del Russiagate ha spinto Trump a muoversi con maggiore prudenza all’esterno, mentre cercava di riprendere il controllo della sua stessa amministrazione a suon di licenziamenti, espulsioni, minacce che si fanno più aggressive dopo l’esito delle elezioni di mid-term. Ma nell’insieme la relazione con Putin è rimasta un punto fermo, mentre si spezzava il legame con l’Unione europea, veniva isolata la Germania di Angela Merkel, si stringevano i legami con le forze politiche euroscettiche e sovraniste, fili che portano ormai chiaramente sia a Mosca sia a Washington. In questi due anni, Trump ha confermato il suo modo di governare imprevedibile, erratico, personalistico. Ciò vale anche nelle relazioni internazionali, basate sul culto, anzi sul mito del guardarsi negli occhi, della stretta di mano, del parlare franco, diretto, da uomo d’affari a uomo d’affari (comprese le trappole, le giravolte, i tradimenti tipici degli affari).

 

Il Russiagate e la tesi del kompromat, la compromissione: anche questa parziale. La missione di Putin: restaurare la Grande Russia

Trump vede in Putin se stesso con il colbacco, uno “molto sveglio”, uno “smart guy” che ha messo fuorigioco ogni opposizione

Il momento più oscuro, anzi enigmatico, resta l’incontro russo-americano di Helsinki il 16 luglio scorso. Doveva essere uno di quei vertici ben costruiti tra due paesi, è stato ridimensionato a un dialogo a due. Non si è saputo che cosa si sono detti per davvero e la conferenza stampa finale ha mostrato lo spettacolo di un presidente Usa confuso, incerto, che non sapeva bene cosa rispondere. Interferenze russe sul voto americano? “Nessuna”, giura Trump. E le prove? “Me lo ha detto Putin ed era sincero”. Il presidente russo si dichiara disposto a collaborare con gli inquirenti americani. Ma ecco in che modo: “Il procuratore speciale Mueller può chiedere l’estradizione, oppure possiamo procedere agli interrogatori in Russia e mandare i risultati negli Usa. Possiamo permettere ai rappresentati degli Usa di interrogarli in Russia, ma loro dovrebbero ricambiare lasciandoci interrogare gli agenti che noi riteniamo essere coinvolti in attività illegali in territorio russo”. Trump annuisce stringendo la bocca a culo di gallina. Non capisce che Putin gli sta chiedendo di mettere sotto controllo l’intero personale diplomatico americano a Mosca. C’è da non crederci e infatti a Washington scoppia un putiferio e Trump, tornato in patria deve proclamare la sua piena fiducia nell’intelligence americano, oltre alla sua completa protezione.

 

Nella strana coppia, insomma, uno è più strano dell’altro e a questo punto si capisce chi. Cominciano così le domande. Che cosa hanno ottenuto gli Stati Uniti da questa partnership speciale? Putin ha mano libera in Crimea e in centro Europa, ormai ritiene scontato quello che i presidenti americani da Bush a Obama gli avevano sempre negato: il cuscinetto di sicurezza o meglio il protettorato sui territori dell’ex Urss, premessa per la Grande Russia; il ritorno a un ruolo chiave in Siria e nell’intero medio oriente fino all’Egitto come nell’èra sovietica; nessun limite nemmeno nei rapporti con la Cina, cioè con l’altra grande potenza che gli Stati Uniti vogliono contenere e bilanciare. Certo, non ha avuto la fine delle sanzioni che tanto gli sta a cuore, ma su questo i paesi occidentali sono più confusi che mai, il suo divide et impera ha funzionato e lui può giocare su più tavoli le sue partite bilaterali. Gli strateghi di Trump possono vantare che, tenendo Putin avvinto da spire amorose, gli Stati Uniti hanno una pedina per dividere i detestati europei e impedire una saldatura russo-cinese. Finora, però, è solo una speranza.

 

Quello di Helsinki viene giudicato un vertice interlocutorio, in realtà molti lo vedono come il primo passo del divorzio. E gli ammiccamenti di Parigi non sono che un paravento o magari un tentativo di recuperare, se di mezzo non ci fosse la corsa agli armamenti che evoca il più nero ritorno alla guerra fredda. Al summit si era parlato di rilancio della non proliferazione. Ma il 21 ottobre Trump ha annunciato la possibilità di ritirarsi dallo storico trattato sui missili nucleari firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, accusando Mosca di averlo violato più volte e di continuare a farlo. Pronta la risposta di Putin: allora sarà corsa agli armamenti. I più benevoli pensano che sia ancora tattica negoziale in stile trumpiano: prima parte la minaccia poi il negoziato; ma si è già visto con la Corea del Nord che questo sistema alla lunga non funziona, anzi il “rocket man” Kim Jong-un ha preso in giro tutti per difendere il suo potere.

 

L’ondivaga politica estera dà ragione a quel che scriveva Samuel Huntington nel 1997: l’identità americana è stata definita a lungo in funzione di “un altro”, talvolta un nemico, sempre un avversario. Era tornata d’attualità la profezia di Alexis de Toqueville che scriveva nel 1835: “Oggi ci sono due grandi nazioni nel mondo che, partite da differenti punti, sembrano tendere allo stesso fine. Alludo alla Russia e all’America. Tutte le altre nazioni sembrano aver raggiunto i loro limiti naturali e devono solo mantenere il loro potere, loro due debbono ancora crescere. Il principale strumento americano è la libertà, quello russo la servitù. Il loro corso non è lo stesso, ma entrambe sembrano segnate dalla volontà di segnare i destini di metà del globo”. Tocqueville non aveva previsto il ritorno dell’impero di mezzo. E come poteva se la Cina chiusa nel suo passato, veniva messa in ginocchio dall’Inghilterra, dalla Francia, dalle potenze occidentali? Oggi al regime di Pechino, nonostante si dichiari comunista, manca qualsiasi vocazione missionaria, l’internazionalismo proletario è diventato pura espansione prevalentemente economica, tuttavia l’affermarsi della potenza cinese pone un problema inedito. In un mondo tripolare, il dilemma del duplice nemico rende tutto più complicato. La Russia di Putin è addestrata alla doppiezza, la vera difficoltà riguarda gli Stati Uniti, vuoi per il paradigma dell’altro analizzato da Huntington, vuoi perché la tattica dell’improvvisazione e degli isterici voltafaccia è destinata a provocare seri guai. Il “doppio contenimento” è una illusione. America First va bene se l’America non ha rivali; ma che succede quando arriva Russia First, poi China First e chissà quanti altri che vogliono rivendicare il proprio primato? Non sappiamo se la strana coppia sta per scoppiare, ma nessun pollice alzato può mascherare la crisi del terzo anno.