La Nato e la Russia: non un centimetro a est

Luciano Capone

Putin e la retorica della “Russia umiliata” dall’occidente per una “promessa tradita” che in realtà non è mai esistita

È un déjà-vu. Come dopo la guerra in Georgia nel 2008, e come dopo l’occupazione della Crimea nel 2014 di cui ieri Vladimir Putin ha festeggiato l’ottavo anniversario, la Russia giustifica l’invasione dell’Ucraina sostenendo che in una certa misura è la reazione a una promessa fatta dall’Occidente nel 1990 e poi ripetutamente tradita: non espandere la Nato a est. Il presidente russo ne aveva parlato nel discorso del 18 marzo 2014 in cui giustificava l’annessione illegale della Crimea ucraina: “Ci hanno mentito molte volte – disse Putin riferendosi ai governi occidentali – hanno preso decisioni alle nostre spalle, ci hanno messo davanti al fatto compiuto. È avvenuto con l’espansione della Nato a est, così come con il dispiegamento di infrastrutture militari ai nostri confini”. E ancora prima, nel celebre discorso alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2007, che è ritenuto il suo manifesto di politica estera, Putin disse: “L’espansione della Nato... rappresenta una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia. E noi abbiamo diritto di chiedere: contro chi è intesa questa espansione? E cosa è successo alle assicurazioni dei nostri partner occidentali fatte dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi quelle dichiarazioni? Nessuno nemmeno le ricorda”.

 

L’idea di una Russia imbrogliata inizia ad affiorare in Russia già negli anni ‘90 con il primo allargamento della Nato ai paesi dell’ex blocco sovietico e viene riproposta, anche da noi, per spiegare le ragioni di Putin sull’Ucraina. Ma l’Occidente ha mai fatto una promessa del genere? La risposta sintetica è no. Ma serve una ricostruzione più articolata per capite a cosa si riferisce la narrazione russa.

 

La presunta promessa “non un centimetro a est”– che ha dato il titolo a un recente libro della storica Mary E. Sarotte (“Not One Inch: America, Russia, and the Making of Post-Cold War Stalemate”) – si riferisce a un colloquio di inizio febbraio 1990 tra il segretario di stato americano James Baker e il leader dell’Unione sovietica Mikhail Gorbaciov sulla non espansione della Nato. Siamo a pochi mesi dalla caduta del Muro di Berlino, con l’Europa in fermento e un regime che sta per sbriciolarsi anche se ancora non lo sa. Le negoziazioni tra l’amministrazione Bush e i sovietici riguardano la riunificazione tedesca, che il cancelliere Helmut Kohl vuole accelerare e Gorbaciov frenare, e il ruolo di una Germania unita nell’Europa divisa dalla cortina di ferro. D’altronde in un mondo in cui c’era ancora l’Unione Sovietica, la discussione non poteva che essere esclusivamente sulla questione tedesca: il passaggio di paesi dal Patto di Varsavia alla Nato era inimmaginabile. Gorbaciov non voleva neppure che la Germania dell’est, la Ddr, venisse incorporata nella Nato attraverso la Germania ovest. Figurarsi se poteva discutere con Baker degli altri paesi del blocco sovietico o delle repubbliche dell’Urss: era un tema forse nella mente di qualcuno, ma sicuramente nell’agenda di nessuno. L’incontro Baker-Gorbaciov fu preceduto, a fine gennaio 1990, da un discorso del ministro degli Esteri della Germania ovest Hans-Dietrich Genscher in cui disse che una Germania unita avrebbe fatto parte della Nato, ma che la giurisdizione della Nato non si sarebbe estesa alla parte orientale (i territori della futura ex Ddr). Era questo il compromesso che, d’accordo con gli americani, si voleva proporre a Gorbaciov.

 

Nei primi giorni di febbraio, il segretario di Stato americano ne parlò prima con il ministro degli Esteri sovietico Eduard Shevarnadze e poi con Gorbaciov. È in questo contesto che Baker dice al leader sovietico: “Capiamo che sarebbe importante non solo per l’Urss ma anche per gli altri paesi europei avere la garanzia che se gli Stati Uniti mantengono la loro presenza militare in Germania nell’ambito della Nato, non ci sarà alcuna estensione della giurisdizione della Nato o della presenza militare di un centimetro a est (no one inch)”. Questa proposta verbale, che riguarda esclusivamente il futuro della Germania, non è una promessa solenne ma la base di un negoziato e infatti viene superata già nei mesi successivi per due motivi: il primo è che l’idea di una Germania mezza dentro e mezza fuori funziona dal punto di vista politico, ma è difficilmente attuabile sul piano pratico; il secondo è che in poche settimane la forza contrattuale dell’Urss si indebolisce notevolmente, da un lato per le condizioni economiche sempre più disastrose (l’Urss chiede aiuti alimentari all’Occidente) e dall’altro per la larghissima vittoria dei popolari della Cdu alle elezioni tedesche del 1990 in entrambe le Germanie.

 

Alla fine nel trattato sullo stato finale della Germania (detto “Due più Quattro” perché firmato dalle due Germanie e dalle quattro potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale: Francia, Regno Unito, Usa e Urss) viene stabilito che la Germania orientale entra a pieno titolo nella Nato, anche se con uno status militare speciale per le restrizioni sulla presenza di truppe straniere e armi nucleari sul suo territorio e un periodo transitorio di quattro anni prima del ritiro definitivo delle 380 mila truppe sovietiche. In cambio Gorbaciov, con un paese in una crisi economica profondissima, ottiene un bel gruzzolo di soldi: 12 miliardi di marchi a fondo perduto e altri 3 miliardi di prestiti senza interessi. Ciò che non ottiene sono le garanzie sul futuro allargamento della Nato a est anche se, come scrive nel suo libro la storica Mary E. Sarotte, già a maggio del 1990, Gorbaciov disse al presidente francese Mitterrand di essere a conoscenza “dell’intenzione espressa da alcuni rappresentanti dei paesi dell’est europeo di uscire dal Patto di Varsavia e di aderire successivamente alla Nato".

 

Durante il negoziato sulla riunificazione tedesca di discusse quindi di un impegno a non spingere la Nato nella Germania est, “ma alla fine – scrive Sarotte – l’accordo ha codificato il contrario: invece di stabilire che nessuna parte dell’ex blocco sovietico sarebbe caduto sotto la potente garanzia dell’articolo 5 della Nato, il trattato ha consentito alla Nato di estendere tale garanzia alla Germania orientale”. Dello stesso avviso è Mark Kramer, studioso della Guerra fredda dell’università di Harvard, che in un articolo del 2009 definì questa promessa dell’occidente alla Russia un “mito”: “Nessun impegno del genere è stato mai preso”. Eppure, ancora oggi, in tanti sono convinti che sia esistito. Nonostante una smentita dello stesso Gorbaciov, che in un’intervista del 2014, quando dopo l’annessione delle Crimea si tornò a parlare della questione, sul punto disse: “Il tema dell’espansione della Nato non è stato affatto discusso, e non è stato sollevato in quegli anni. Nessun paese dell’Europa orientale ha sollevato la questione, nemmeno dopo che il Patto di Varsavia ha cessato di esistere nel 1991. Nemmeno i leader occidentali l’hanno sollevato. Abbiamo discusso di un’altra questione: assicurarsi che le strutture militari della Nato non sarebbero avanzate e che le forze armate aggiuntive dell’alleanza non sarebbero state dispiegate sul territorio dell’allora Germania dell’Est dopo la riunificazione tedesca. La frase di Baker è stata detta in quel contesto”.

 

Tanto è vero che non c’era alcun giuramento di non allargare la Nato a est che nel corso degli anni è stata ipotizzato più volte l’impossibile ingresso della Russia nella Nato, cosa che voleva Eltsin e dopo di lui anche lo stesso Putin che appena dopo l’11 settembre 2001 fece un primo passo in avanti chiedendo al segretario generale della Nato George Robertson, come lo stesso ha recentemente ricordato: “Quando inviterete la Russia a entrare nella Nato?”. Insomma, la Nato poteva talmente allargarsi a oriente che lo stesso Putin sarebbe stato ben disposto a farla arrivare fino a Vladivostok entrandone a fare parte. Che non ci fosse alcuna promessa di non avanzare a est è quindi fuor di dubbio, che la Nato dovesse invece necessariamente farlo è un’altra questione.

 

Sin dall’inizio degli anni Novanta, dopo il collasso del blocco sovietico, negli Stati Uniti e in seno all’Alleanza si è discusso molto delle prospettive della Nato. Di fronte al vuoto di sicurezza che si apriva nel cuore dell’Europa in tanti si chiedevano che fare: da un lato i fautori di una linea wilsoniana, che ritenevano che l’espansione della Nato verso est avrebbe facilitato la diffusione del capitalismo democratico stabilizzando anche dal punto di vista della sicurezza i paesi dell’Europa centro-orientale (cosa che poi è accaduta); dall’altro i critici, che ritenevano la difesa degli stati dell’est di discutibile valore strategico dato che l’allargamento avrebbe potuto produrre una reazione negativa da parte dell’Urss/Russia, destabilizzando l’area (cosa che stiamo vedendo ora). Il crollo totale del comunismo spinse gli Stati Uniti sotto l’amministrazione Clinton verso l’allargamento, anche perché c’erano una pressione fortissima e un consenso enorme nei paesi che si erano liberati dal giogo sovietico. In ogni caso il tema dell’allargamento era già stato definito a gennaio del 1994 quando il presidente Clinton, in visita a Praga dove aveva incontrato i leader dei paesi di Visegrad, disse chiaramente che “la questione non è più se entreranno nuovi membri nella Nato, ma quando e come”.

 

Rispetto a quel dilemma che poneva due obiettivi e dei trade off – stabilizzare l’est Europa e non entrare in collisione con la Russia – l’Amministrazione Clinton pensò di poterli perseguire entrambi. Per questo discusse costantemente di questi temi con il presidente russo Boris Eltsin. E proprio per evitare di destabilizzare il quadro politico russo, già allora attraversato di spinte nazionaliste, Clinton aspettò la rielezione di Eltsin nel 1996 per procedere con l’allargamento della Nato a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria che avvenne solo nel 1999, e comunque dopo aver siglato con Mosca il Nato-Russia Founding Act nel 1997.

 

Il problema era che tutto questo non bastava alla Russia, che ambiva a essere riconosciuta come una partner globale degli Stati Uniti in virtù della sua storia. E per quanto gli Stati Uniti volessero tenere in considerazione gli interessi della Russia non poteva essere sufficiente, perché la Russia riteneva di meritare un ruolo che l’America non era disposta a riconoscere. Mosca aveva ambizioni superiori ai propri mezzi e questo nel tempo ha provocato frustrazione e un certo senso di umiliazione: come se tutte le accortezze americane siano state solo una presa in giro per far ingoiare il rospo dell’allargamento della Nato. Ma in realtà la Russia aveva perso catastroficamente la Guerra fredda ed era in condizioni economiche fragilissime, tali da non poter pretendere un posto a capotavola. Ed è anche il motivo per cui la strategia clintoniana aveva dei limiti strutturali. “C’è una contraddizione di fondo – dice al Foglio Mario Del Pero, professore di Storia internazionale a Sciences Po – perché l’integrazione securitaria nello schema atlantico non è in ultimo conciliabile con gli interessi di Stati Uniti e Russia. L’allargamento della Nato non minaccia in senso stretto la sicurezza della Russia, ma alla fine ha alimentato l’idea dell’umiliazione, del tradimento e del mancato riconoscimento che va ad alimentare quel nazionalismo vittimista che Putin sfrutta e cavalca”.

 

C’è da chiedersi se si è fatto abbastanza per non far sentire la Russia esclusa. Lo storico russo Sergey Radchenko, in una pubblicazione scientifica sul tema fa un ragionamento a parti invertite, chiedendosi, nel caso fosse stata la Russia a vincere la Guerra fredda, “se sarebbe stata generosa quasi quanto Clinton nel cercare di includere gli Stati Uniti nelle strutture rinnovate dell’onnipotente Patto di Varsavia”. La risposta è: “Probabilmente no”. E c’è da chiedersi anche se si poteva fare altrimenti, ad esempio evitando di allargare la Nato per non indispettire la Russia e preservare i buoni rapporti con una potenza nucleare. In questo caso, però, c’è anche da chiedersi se, chiudendo la porta della Nato ai paesi dell’ex blocco sovietico, nell’Europa centro-orientale ci sarebbero state economie avanzate e democrazie abbastanza solide come quelle attuali. E di converso se, nel vuoto di sicurezza che si era creato nel cuore dell’Europa, quegli stati non sarebbero stati una facile preda di una rinnovata politica imperialista della Russia. Proprio come l’Ucraina di oggi, che sta tentando di intraprendere lo stesso percorso politico-istituzionale degli altri paesi dell’est. Sono quesiti a cui è difficile, se non impossibile, rispondere. Ma di certo si può dire che il deterioramento dei rapporti tra Occidente e Russia non dipende dal tradimento di una promessa che non è mai esistita.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali