Foto di Sergei Grits, AP Photo, via LaPresse 

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L'arrivo della Finlandia nella Nato è una gran sconfitta per Putin

Vittorio Emanuele Parsi

Uno degli attori del "Grande nord", sul cui controllo Mosca ha investito, entra nell'Alleanza atlantica. Ma ciò che non è protetto dalla Nato non è “res nullius” alla mercé del Cremlino

Le conseguenze dell’aggressione putiniana all’Ucraina saranno permanenti, anche nel caso di una tutt’altro che impossibile sconfitta militare russa. L’ingresso della Finlandia nella Nato è una di queste e rende in maniera plastica la sconfitta strategica del despota del Cremlino. Una guerra scatenata col pretesto di “allontanare” la Nato dalla Russia ha, nell’immediato e in maniera definitiva, procurato a Mosca il più lungo confine con un paese Nato: 1.800 chilometri. Con l’ingresso della Svezia, il Baltico si trasforma sempre più in un lago della Nato e lo stesso Mare di Barents, dove la Russia concentra importanti forze sottomarine e testate nucleari intercontinentali, diventa assai più vulnerabile. 

Putin si è senza dubbio meritato il premio di “impiegato dell’anno” dell’Alleanza atlantica, alla quale ha procurato due nuovi stati membri, la rivitalizzazione della propria storica missione, il rafforzamento della coesione transatlantica, un’Europa più consapevole delle esigenze della sua sicurezza e, appunto, il miglioramento della posizione in due mari di importanza strategica.

Il Cremlino minaccia sfracelli, come sempre, ma sa bene che più che “abbaiare ai confini” della Nato non può fare mentre gli tocca invece incassare un colpo durissimo. Per una grande potenza militare che è impantanata da 13 mesi nell’“operazione militare speciale”, un nuovo punto di contatto così esteso con l’Alleanza è una pessima notizia. Oltre tutto la Finlandia è un attore del “Grande nord”, di quell’Artico sul cui controllo – in termini di rotte e materie prime – Mosca ha investito più di chiunque altro.

A causa del riscaldamento globale, la “rotta marittima settentrionale”, che corre dal Mare di Barents allo stretto di Bering all’interno delle acque territoriali russe, è sempre più navigabile ed è guardata con interesse dalla Cina. Non solo, da circa un decennio ormai la Russia è il paese che ha maggiormente militarizzato l’Artico e proprio dalle basi di Murmansk provenivano le brigate di fanteria di Marina inopinatamente sacrificate dalle offensive suicide ordinate dal colonnello generale Rustam Muradov, appena silurato dal Comando militare orientale russo.

La Finlandia è un piccolo paese pacifico ma per nulla imbelle, ha Forze armate di ottimo livello, seppure di dimensioni contenute, e un ragguardevole numero di riservisti regolarmente addestrati. Lo statuto di neutralità l’ha costretta a mantenere e incrementare costantemente la qualità del suo strumento militare a mano a mano che si faceva più evidente la natura aggressiva del regime putiniano. Come la Svezia, rappresenta un guadagno puro e semplice per le capacità difensive della Nato. Ma il suo ingresso nell’Alleanza contribuisce anche alla stabilizzazione più complessiva della sicurezza in Europa.

Elimina ogni possibilità di equivoco che qualunque azione ostile nei confronti di Helsinki verrebbe tollerata dall’occidente, riduce cioè quell’area grigia in cui Putin poteva illudersi di poter agire indisturbato o correndo rischi limitati. E questo è un bene. In tal senso spiana la strada alla futura adesione dell’Ucraina all’Alleanza, giacché proprio la guerra in corso contro Kyiv attesta che solo la membership atlantica può garantire un’effettiva e totale protezione contro le mire revisioniste del Cremlino. Questo è un altro dei fallimenti certi conseguiti dal grande stratega Vladimir Putin. In questo senso, accrescendo deterrenza e dissuasione nei confronti di un dispotismo aggressivo, inaffidabile e privo di scrupoli, l’adesione della Finlandia rafforza la pace in Europa quando, con la fine dell’invasione, essa potrà essere ristabilita.

Ora però occorre mandare a Mosca un altro segnale forte e chiaro. Ovvero che non può considerare ogni territorio non protetto dalla membership della Nato come se fosse “res nullius”, una terra di nessuno che la Russia può saccheggiare e devastare a suo piacimento. Ciò che la Nato sta facendo nei confronti dell’Ucraina, sia pure non senza difficoltà, è proprio questo, dimostrando che l’Alleanza è in grado di proiettare sicurezza anche oltre le sue mura e che non può essere disponibile a pensarsi come una fortezza cinta d’assedio. Le guerre del resto non si vincono semplicemente resistendo agli assedi.

A giorni alterni il Cremlino minaccia escalation nucleari. Lo ha fatto anche nei giorni scorsi, con l’annunciato dislocamento di testate nucleari in Bielorussia (già ce ne sono peraltro a Kaliningrad, nel cuore d’Europa), a poche ore dalla visita di Xi a Mosca e dall’apprezzamento per il documento cinese che ammonisce a non minacciare il ricorso all’arma nucleare se non a fronte di una minaccia esistenziale. E lo spettro di un Putin alle corde “costretto” a ricorrere alla bomba atomica per salvare se stesso e il suo regime è uno dei refrain preferiti del partito dei “no alla guerra!” (ma sì alla resa). Come però ha ben argomentato da queste colonne Cecilia Sala, ragionando sulla mancata seconda mobilitazione, se costretto a una dolorosa scelta “il presidente russo preferisce essere amato nel suo paese che vincere in Ucraina”, perché sa fin troppo bene che “questa guerra è esistenziale solo per l’Ucraina e gli ucraini e non per Mosca o per lui”.

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