Matteo Salvini in piazza a Milano (foto LaPresse)

Viva l'Europa che non russa

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Ci è arrivato addosso il blues elettorale proprio a un passo dal voto di vita e di morte per il futuro della nostra Europa: si poteva fare di più? Poi abbiamo guardato sovranisti e grillini da vicino e abbiamo capito che gli europeisti, quando vivono pericolosamente, poi volano. Un viaggio elettorale

Quando abbiamo iniziato a parlare di cotolette, delle differenze tra quella milanese e quella viennese, di doppie impanature e dell’uso della farina (orrore), è stato chiaro: il blues elettorale in vista del voto di questa settimana – queste elezioni europee di vita o di morte – è arrivato. I segnali c’erano già stati: le copertine sui sovranisti, gli allarmismi sull’onda nera in arrivo, le grandi riunioni dei nazionalisti, i flirt tra destre tradizionali e destre più in là, le felpe, le divise, i binocoli, i fili spinati, i porti occasionalmente inaccessibili, persino lo smalto delle donne in fuga. Ci siamo occupati di tutto, degli slogan e dei loro megafoni, e ci siamo dimenticati di noi, di quel che siamo, di quel che ci tiene insieme, di noi fortunati abitanti di uno dei posti più belli, più ricchi, più felici, più liberi del pianeta. Poi è arrivata la cotoletta e la sensazione che, ancora una volta, avevamo perso un’occasione rincorrendo a perdifiato un nemico furbo e rapido, che ti ruba le parole e te le rimette nel piatto condite a modo suo, e la cena va di traverso, magari pure il governo. Il blues elettorale: eccolo qui, a pochi giorni dal voto, maledizione.

 

Davvero l’Ue impone regole sulle cotolette? No. Ma è un tema nell’Austria della coalizione destra-destra che è appena implosa

La cotoletta è stata tirata fuori da Sebastian Kurz, il cancelliere austriaco conservatore, giovanissimo ed enigmatico che nelle ultime ore si è dimostrato veloce, preciso, brutale, coraggioso. Kurz ha guidato un governo di coalizione assieme all’Fpö, partito di estrema destra, e ha avuto il suo bel daffare a tenere a bada i compagni di viaggio: si distraeva e gliene combinavano una, che fosse la lista di proscrizione dei media da evitare perché critici oppure – cosa più grave – le derive suprematiste dentro ai corpi dell’intelligence di stato. Kurz ha trovato spesso il modo di rimettere gli estremisti al loro posto, poi davanti all’affronto inappellabile – un video, i fondi russi, uno scambio di favori, degli appalti – ha deciso di andare a elezioni anticipate, a settembre. La vita su quella faglia scomoda e piccina in cui ti devi sporcare le mani con sovranismo, nazionalismo e pure qualcosa di più non è affatto semplice, e Kurz con tutta probabilità vuole usare il tempo elettorale per drenare consensi all’Fpö, diventare destra autonoma. Aveva già iniziato, a dire il vero, con la cotoletta. In uno degli ultimi comizi elettorali in vista delle europee – questo voto di vita o di morte, o sei europeista o sei antieuropeista, il grigio è il lusso antico di stagioni più moderate – ha detto che l’Europa deve smetterla con il suo dirigismo, non si può permettere di imporre agli austriaci come debbano cucinare la loro cotoletta, la celebre Wiener Schnitzel, con le patatine fritte. A parte che qualche suggerimento ci starebbe pure – la cotoletta con la farina, ma quando mai? – l’Unione europea non ha mai detto come si debba preparare la Schnitzel. Ha introdotto, con il regolamento 2017/2158 del 20 novembre del 2017, sottoscritto anche dall’Austria, una riduzione dell’acrillamide nei cibi, che secondo gli esperti emerge naturalmente nei cibi fritti. Il regolamento non cita la carne fritta (le patate e i vegetali sì), ma si è sparsa – soprattutto in Austria – l’idea che l’Unione europea volesse boicottare la Schnitzel con una nuova “politica del fritto”, un attentato alla sovranità culinaria.

 

Potremmo stare qui giorni a discutere del fatto che l’Ue ha molto di meglio e di più da fare che occuparsi di come si friggono le patatine oppure del fatto che c’è una certa contraddizione nell’impuntarsi sull’acrillamide e poi permettere i monopoli di stato del tabacco oppure del fatto che il problema è il salutismo di stato, che non è certo un’esclusiva europea. Potremmo stare qui giorni, ma mancheremmo il punto: Kurz ha volontariamente ripetuto una frase fatta della propaganda antieuropea, che per di più è falsa. Perché lo fa? Perché parlar male dell’Europa è elettoralmente conveniente, perché stare a spiegare che questo regolamento come molti altri riguardanti il cibo sono stati ispirati da una logica di uguaglianza – c’è un problema nell’Unione di prodotti apparentemente identici che nei paesi dell’est sono fatti con ingredienti meno pregiati di quelli utilizzati a ovest – è ben più complicato e meno attraente della retorica sull’Europa invasiva e tiranna.

 

Accettando la retorica degli antieuropeisti senza ribattere colpo su colpo ci siamo dimenticati di noi, e di chi ci potrebbe salvare

Di Schnitzel in Schnitzel, s’è finito per deturpare la storia europea, la sua immagine e le sue realtà. Jean-Claude Juncker, presidente uscente della Commissione europea, un altro di quei personaggi brussellesi che è finito nel mirino della propaganda antieuropea – interpreta la parte dell’ubriacone – ha detto di essersi pentito di non aver ribattuto dato per dato, parola per parola, a chi ha alimentato la percezione di un’Europa schiacciata dalla follia delle norme, delle regole e della burocrazia. Juncker ce l’aveva con Kurz, che “essendo un europeista non dovrebbe unirsi al coro delle voci antieuropee” e ce l’aveva con le dicerie che hanno fatto scuola nel Regno Unito della Brexit, che hanno determinato l’esito del referendum e che ancora circolano come se fossero vere gonfiando i consensi dei brexiteers.

 

La cotoletta, Kurz, lo scontro con le destre estreme, tra convivenze e porte sbattute, cosa si poteva fare e non si è fatto: ecco perché questo è il momento del blues. Fra tre giorni si inizia a votare nel Regno Unito e nei Paesi Bassi, domenica sera avranno votato tutti i 28 paesi dell’Ue e se ci voltiamo indietro vediamo che pure di fronte a uno scontro epocale per il progetto europeo – che non è roba né da accademici né da salotti: è vita quotidiana infinitamente più semplice rispetto a solo trent’anni fa – ci siamo persi dietro alle lucciole, e ci siamo dimenticati di noi. E allora: come ci si salva? O, ancora meglio: chi ci salva? 

 


Lo scrittore Olivier Guez ci dice che il nostro tesoro più prezioso e più “puro” è deformato dai manipolatori. Che nonostante si siano federati con Salvini hanno tante disunioni


 

In una delle tante conversazioni che abbiamo avuto in questi mesi con scrittori, commentatori, politici, Olivier Guez, romanziere e sceneggiatore, ci ha detto che “la democrazia pura”, quella che siamo riusciti a creare oggi, il nostro tesoro prezioso, “è un bordello inimmaginabile”. Ha visto che in Germania ci sono 41 capilista e si è messo a ridere, “la verità non esiste più, non esiste più nemmeno la memoria, tutto il mondo si può esprimere, se tu metti insieme questi tre fattori e pensi che esistono anche dei manipolatori esterni che deformano la verità e la storia, capisci come siamo arrivati a questo gigantesco bordello che è la democrazia orizzontale oggi”, uno vale uno. I manipolatori stanno storpiando ogni cosa, e la democrazia che difendiamo è la loro massima legittimazione. Che bordello: è come l’Ungheria seduta sui soldi europei che dice che l’Ue è tanto simile all’Unione sovietica; è come il Brexit Party di Nigel Farage, l’europarlamentare contro l’Europarlamento che dice che tanti soldi e tanto facilmente come a Strasburgo è difficile guadagnarli. E’ come la cotoletta, che bordello inimmaginabile, acuito dal racconto prevalente di questa nostra stagione: un racconto color nero, color rabbia, che come scrive la filosofa Martha Nussbaum nel suo saggio “The Monarchy of Fear”, è la figlia prediletta della paura. E la paura “rende ogni cosa amorfa – scrive David Brooks, editorialista del New York Times – Prendete l’immigrazione: è un fenomeno che ha vantaggi e svantaggi concreti. Ma per chi ha paura l’immigrazione, ma anche la globalizzazione, la Silicon Valley, Wall Street o l’automazione sono senza forma, forze insidiose fuori controllo, e la reazione inevitabile è esagerata”.

 

Cotolette, elezioni anticipate, coalizioni ingestibili, bordelli inimmaginabili, manipolatori, reazioni esagerate: dev’essere per questo che i sovranisti andranno bene a queste elezioni. Bene nel senso che rispetto al passato c’è una progressione, bene perché sono riusciti a imporre le loro (opportunistiche) priorità, bene perché se guardate le copertine dei magazine – la narrazione pubblica – troverete quasi esclusivamente facce sovraniste. Bene per loro insomma, ma l’Ue resta a maggioranza europeista, anche se il blues elettorale ogni tanto ce lo fa dimenticare: “Questo ultimo decennio vissuto pericolosamente – scrive l’Economist – sembra aver ridisegnato la politica europea in una cosa un po’ più coesa, se non addirittura coerente”. L’espansione, che è stata la grande forza d’attrazione del progetto europeo, ha lasciato il posto alla protezione – “l’Europa che protegge”, quante volte ci è capitato di sentirlo? Ma questa protezione può svilupparsi in modi differenti, che hanno a che fare con il tempo. Il tempo che non c’è, il tempo che resta, prima della distruzione o della rinascita. Chi vuole cambiare tutto e subito e chi vuole applicare il metodo tipicamente europeo, quello incrementale.

 

Il paradosso di queste elezioni è che gli euroscettici parlano tantissimo di Europa e si organizzano su scala europea, mentre gli europeisti si incastrano nelle differenze e inciampano nelle dinamiche nazionali

Nel business del “cambiamo tutto e subito” Matteo Salvini è l’imprenditore di successo: leader della Lega, ministro dell’Interno, vicepremier e federatore del nazionalismo europeo, è riuscito a costruire un’alleanza elettorale che ha prodotto sabato a Piazza Duomo a Milano un carnevale nazionalista costretto a dire “prima l’Italia!” in omaggio al padrone di casa. Salvini dice che le elezioni europee sono un referendum tra “passato e futuro” e così completa la ruberia delle parole degli europeisti: si è preso il “buon senso”, si è preso il “cambiamento”, si prende anche il “futuro”. Quello che i sovranisti hanno capito è che presentandosi uniti sono più forti, per le divergenze si può attendere. Come scrive la politologa spagnola Astrid Barrio su El Periodico, è un terribile paradosso (blues!) che siano gli euroscettici a condurre una campagna elettorale unitaria su scala europea, anche se contro l’Europa, mentre gli europeisti si mostrano separati, incastrati tra le pieghe delle differenze e delle sfumature, e inciampano nelle dinamiche nazionali. Gli europeisti in questa campagna elettorale hanno spesso ignorato la dimensione europea: gli euroscettici la cavalcano.

 

Secondo le proiezioni (del Financial Times e di Politico Europe), i sovranisti potrebbero arrivare a 71-75 seggi, grazie soprattutto al buon risultato della Lega. Sulla tenuta di questa alleanza si è detto molto: il collante ideologico c’è ed è forte, ma poi la politica e soprattutto il governo sono pratica, decisioni da prendere, obiettivi da rispettare. Anche le amicizie sono un problema, soprattutto quelle internazionali, soprattutto quelle con Mosca. La Lega vanta ottimi rapporti con Russia Unita, le campagne elettorali di Marine Le Pen sono state finanziate in parte da banche russe e anche l’AfD tedesco ha con il Cremlino legami politici e finanziari (questioni di jet privati inclusi). Poi c’è l’Fpö che sabato a Milano ha dovuto mandare l’eurodeputato Georg Mayer perché il resto del partito era incastrato a Vienna, dopo la pubblicazione del video in cui il leader Heinz-Christian Strache, in una serata a Ibiza in compagnia di molte birre e della presunta nipote (!) di un oligarca, diceva di essere disponibile ad accettare soldi russi in cambio di favori. Strache si è dimesso, la coalizione austriaca è collassata e i legami con Mosca rimangono a creare spaccature anche in terreno salviniano. Gli estoni dell’Ekre sono antirussi, per dire. I legami con il Cremlino fanno scricchiolare questa alleanza rumorosa e dispettosa. Se poi si scava anche nell’ideologia, si trovano le divergenze e gli attriti: i conti dell’Italia, ad esempio, nessuno li vuole pagare, così come nessuno è disposto a prendere i migranti che arrivano in Italia. Né Marine Le Pen, madrina di quest’alleanza, né Jörg Meuthen, il rappresentante di Alternative für Deutschland in Piazza Duomo. L’AfD è nato in Germania proprio per promuovere, oltre alla lotta all’immigrazione, l’intransigenza verso quei paesi che non si impegnano a ridurre il debito, pesando anche sui conti tedeschi. E sì, ce l’hanno sempre avuta anche con l’Italia. “Sono pazzi questi romani!”, aveva scritto su Twitter Alice Weidel quando il governo italiano aveva presentato la manovra. “Perché dobbiamo pagare noi? Come può passare il concetto che cinquecentomila italiani andranno in pensione, ma che ci saranno anche un reddito di cittadinanza e una flat tax?” – e sì, ce l’aveva con la Lega. Questa unione si regge su un insieme di istinti e di rivendicazioni compressi dentro a una scatola che è l’Alleanza dei popoli e delle libertà.

 

  

A Milano i partiti erano undici, ognuno con il proprio sovranismo. C’era anche l’olandese Geert Wilders, fondatore di Partito per la Libertà e promotore della Nexit, l’uscita dei Paesi Bassi dall’Unione europea. A proposito: questa Alleanza è piena di exit saltate: teniamocela stretta questa Europa, pensano ora i sovranisti, che anzi hanno talmente invertito la rotta che ora vogliono giocare un ruolo centrale nell’Ue – per colpirla meglio, naturalmente. L’idea è il caos e bisogna guardare oltre i numeri, una disarmonia prestabilita, creata soltanto per una battaglia senza contenuti contro Bruxelles. “Si prenderanno a calci – ci ha detto Ágnes Heller, la filosofa ungherese che con i suoi novant’anni non ha ancora rinunciato a combattere contro i populismi – Per ora hanno due nemici in comune, l’Unione europea e la democrazia liberale, rimarranno uniti fino a quando dovranno combattere contro il nemico”.

 

L’alleanza dei sovranisti è frutto di una disarmonia prestabilita: conta l’onda d’urto, non la convergenza. Dopo la conta ci sarà da governare, ma la priorità di queste formazioni è frammentare

Il bordello inimmaginabile, i calci: la storia europea è diventata un romanzo in cui quel che ti salva potrebbe anche ucciderti. E’ un attimo, è il tempo, forse anche la chimica. Si dice di Salvini e della Le Pen che non vadano granché d’accordo, che la madrina non abbia dato al leader della Lega il compito di cercare alleati, è lui che se lo è preso. E le ha rubato lo scettro della cecchina d’Europa, il nome che ormai fa paura è Salvini e non Le Pen, benché lei venga da una dinastia ben più antica e molto più chiacchierata. Al di là delle maldicenze la Lega e il Rassemblement national sono a pochi passi di distanza e, secondo le proiezioni, dei 71 posti dell’Alleanza, 25 andranno agli italiani e 22 ai francesi. Gli altri partiti si perdono, sono nomi di formazioni a cui si fatica a dare un volto. Sono il riempimento, l’accessorio, seggi qua e là per occupare l’ala destra del Parlamento europeo. A Geert Wilders andranno cinque seggi, poi ci sono gli altri: i bulgari di Volya, gli slovacchi di Sme Rodina, il partito estone Ekre (quello antirusso che ha intrappolato persino la sgamata Le Pen nel gesto suprematista dell’“ok”), i belgi di Vlaams Belang, il Partito popolare danese, i cechi di Libertà e democrazia diretta – guidati da Tomio Okamura, nato a Tokyo da madre ceca e padre giapponese ma pronto a battersi per una Repubblica ceca boema – e infine i Veri finlandesi. Una forza informe, impegnata alla rinfusa a promuovere un’idea di Europa del nonsenso. Così è stato a Milano, dove ognuno aveva la propria bandiera sotto la quale vorrebbe riformare l’Europa, tutto un parlare contro e mai un parlare per. Il gruppo è cresciuto in fretta e secondo Ágnes Heller a loro va un merito importante, anzi una furberia: hanno saputo intercettare dove andava, cosa diventava, la società. Il cambiamento, parola abusata e maltrattata nelle ultime campagne elettorali, dei linguaggi, delle norme e delle pance, loro lo hanno rincorso. Ma per andare dove? 

  


L’Europa ha ritrovato forza sui precipizi: la Grexit, la Brexit, l’arrivo di Trump, l’ingerenza di Putin, le offerte di Xi, persino la crisi economica alleviata dal “whatever it takes” di Draghi. Nelle democrazie-bordello (è un complimento!) quel che ti tiene su può anche farti crollare


 

A queste elezioni i sovranisti vanno divisi in due, l’Alleanza dei popoli e delle nazioni è in ascesa, i Conservatori e riformisti, con dentro, tra gli altri, il PiS polacco, i Fratelli d’Italia, gli olandesi di Forum per la democrazia e i Tory britannici, sono in discesa. Anzi dimezzati rispetto alle elezioni del 2014. Qui la confusione è ancora più grande.

 

Qualcuno vuole normalizzarsi, qualcuno estremizzarsi e si rimane appesi alle alleanze, alle sedie che verranno, alle cariche sognate, al desiderio di contare in un Parlamento a maggioranza europeista. Dopo il voto, i due gruppi puntano a coalizzarsi e a tendere un braccio verso il Partito popolare europeo dove c’è il primo ministro ungherese Viktor Orbán che sta lì a giocare al corteggiato e al corteggiatore – un’altra faccia sovranista sopravvalutata. Come dice un osservatore ungherese: “Il più grande vantaggio nel controllare lo stato moderno burocratico non è il potere di perseguire chi è innocente. E’ il potere di proteggere il colpevole”. In Italia questa dinamica è piuttosto evidente: opportunismo e cinismo sono un tratto comune dei populismi, e no, la teoria del domino – il contagio populista – non funziona come molti vogliono farci credere. Di questi due schieramenti nazionalisti i partiti importanti dei due schieramenti sono Lega, Rn e il PiS che porterà ai conservatori e riformisti 22 seggi. Il resto si perde, urlando qua e là. Così come nella farsa tragica di Ionesco “Le sedie”, a questa alleanza ognuno porta una sedia – “Guardiani? Vescovi? Chimici? Calderai? Violinisti? Delegati? Presidenti? Poliziotti? Commercianti? Edifici? Portapenne? Cromosomi?” – si preparano i posti per invitati invisibili, o quasi.

 

Poi c’è il populismo pallido dell’altra metà del governo italiano. Pallido non perché meno lesivo o meno euroscettico, ma perché incapace di darsi un colore, oscilla da destra a sinistra alla ricerca di un suo posizionamento e di voti. Nel Parlamento europeo il Movimento cinque stelle siede a destra nell’Europa della Libertà e della Democrazia diretta, tra i Conservatori e riformisti e l’Alleanza dei popoli e delle libertà. Cerca alleati in modo forsennato e si è imbattuto in uno strambo gruppo di sodali pescati qua e là, a destra e a sinistra, mentre spera che il Brexit Party, il miracolo elettorale di Nigel Farage che ha deciso di affrontare le elezioni europee con un nuovo partito per fare finalmente questa Brexit, decida di tornare con loro. Per ora Farage, che potrebbe avere 22 seggi e vincere un’altra volta come nel 2014 le elezioni, ha risposto con un “vedremo”: non è molto affezionato ai suoi familiari europei e prende in considerazione sia l’ipotesi di formare un gruppo indipendente sia di aderire all’alleanza di Matteo Salvini. Per ora a Luigi Di Maio rimangono le foto di famiglia accanto al polacco Pawel Kukiz, ex cantante punk e razzista, accanto ai croati di Zivi Zid che vuol dire Barriera vivente, al finlandese Liike Nyt e al partito greco Akkel. Una sfilata di volti mai visti e di ideologie raffazzonate che potrebbero arrivare ad eleggere due, tre deputati appena. Ma il populismo si regge anche su questo: sul dare all’ignoto la parvenza del noto, all’illegittimo il decoro del legittimo, altra malattia della democrazia orizzontale, “il problema è che i pareri di tutti vengono presi sul serio – ci ha detto Guez –, non c’è gerarchia”. “Li ho convocati tutti”, dice un personaggio de “Le sedie” all’altro. “Tutti? I proletari? I funzionari? I rivoluzionari? I reazionari? Gli alienisti e i loro alienati?”, chiede l’altro. “Ma sì, tutti, visto che è evidente, per un verso o per l’altro, che sono tutti degli studiosi o dei proprietari”.

 

Nel bordello inimmaginabile fatto di rabbia, opportunismo e ammucchiate, la Francia è il paese da guardare: in queste elezioni europee che come sempre (blues!) sono una sommatoria di elezioni nazionali – basta guardare le campagne elettorali, in particolare quella italiana – la contesa più simbolica si svolge in territorio francese. Emmanuel Macron contro Marine Le Pen, il custode del cuore europeo e l’assalitrice del cuore europeo – proprio come accadde nel 2017, al secondo turno delle presidenziali. Dopo la vittoria di Macron allora, l’assalto nazionalista pareva scongiurato: il Front national ha cambiato nome e ha perso adepti, ha cambiato strategia – l’uscita dall’Unione europea non ha più posto – e si è buttato nel corteggiamento della piazza anti Macron, capitanata dai gilet gialli, ritrovandosi come compagna anche la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, un alleato né semplice né naturale. In questa ultima fase elettorale però la Le Pen ha ripreso quota, grazie a una scelta fortunata – il giovane Jordan Bardella come capolista – e a qualche vulnerabilità dei macroniani. La capolista della République en Marche, Nathalie Loiseau, preparatissima, moderatissima e genialissima proprietaria di un gatto chiamato Brexit perché non sa mai se vuole uscire dalla porta o stare dentro, in realtà non si è dimostrata molto efficace, anzi. Il risultato è che nei sondaggi la République en marche del presidente e il Rassemblement national sono testa a testa, un giorno sopra una e un giorno sopra l’altro, e a soffrire di più è Macron.

 

In Francia la contesa ha una risonanza grande: Macron vs Le Pen, come alle presidenziali del 2017. I sondaggi sono incerti e danneggiano soprattutto il presidente

Il presidente porta su di sé due battaglie: quella generale in difesa del costrutto europeo – liberale e aperto – e quella di rifondazione delle famiglie politiche europee. La prima si combatte, la seconda è già in parte perduta: Macron non è riuscito a esportare in Europa il modello En Marche. Sperava di creare un fronte moderato attrattivo, che portasse a sé i moderati di destra e di sinistra, esattamente come è accaduto in Francia. Ma le famiglie europee si sono dimostrate ben più resistenti e comode nelle loro case e non hanno dato seguito al corteggiamento macroniano. Così soltanto da ultimo, Macron ha deciso di fondare un nuovo gruppo con i liberaldemocratici europei dell’Alde, gli alleati naturali: si chiama Renaissance e dovrebbe essere la gamba su cui si poggeranno il Partito popolare europeo – dato come primo classificato nei sondaggi – e il Partito socialista europeo – dato per secondo, in calo come il Ppe – per trovare la maggioranza al Parlamento europeo. Renaissance è al tempo stesso il macronismo in potenza e la sua sconfitta parziale: questa nuova formazione potrebbe essere la nuova casa dei moderati, se i numeri e le fratture delle altre famiglie europee dovessero innescare quegli spostamenti che Macron avrebbe voluto far partire già da tempo. Ma intanto lo slancio rifondatore è stato ridimensionato: le liste transnazionali che la Francia aveva caldeggiato sono state bocciate, ancora i macroniani combattono per boicottare il sistema degli Spitzenkandidaten, i capolista che diventano presidenti della Commissione europea: potrebbero averla vinta.

 

Se il presidente perde in casa però, l’effetto si sentirà anche nel resto del continente, non soltanto perché i sovranisti potranno intestarsi un bottino davvero ghiotto – abbiamo sconfitto il liberale in chief! – ma perché Macron è Mr Europe, il supereroe dell’europeismo, nessuno ha messo in conto che potesse morire (i supereroi non muoiono, dai). E se muore, che succede a tutti gli altri? A salvarlo, nel caso, potrebbe essere ancora e sempre lei: Angela Merkel. In questa campagna elettorale si è molto parlato del duo Macron-Merkel, soprattutto delle loro divergenze (blues!). Simon Kuper, scrittore ed editorialista del Financial Times, ci ha detto che la retorica contro il cuore franco-tedesco fa parte del “manuale dei sovranisti”. Lui ha pubblicato un elenco degli elementi in comune tra il trumpismo e la Brexit, quel che definisce “il populismo anglosassone” e ha adattato per noi alcune di questi alla realtà di altri paesi, compresa l’Italia. “Quel che l’America fa con il Messico e il Regno Unito fa con l’Irlanda – ci ha detto Kuper – il resto dell’Europa lo fa con francesi e tedeschi. Urlare forte contro i vicini in modo che si pieghino” all’avanzata nazionalista. Per Macron, la Merkel e “gli altri leader senza faccia che a Bruxelles prendono ordini dalla Germania – dice Kuper utilizzando il linguaggio dei sovranisti – sono dei lagnosi ingrati che ci devono un favore. Ma tanto stanno per scoppiare, e scomparire”. Molti scommettono in particolare che a scoppiare sia il cuore franco-tedesco. Per vizi antichi e guai moderni: Olivier Guez è convinto che la Francia “non sia mai stata veramente europeista, salvo nel momento in cui i francesi hanno pensato che l’Europa sarebbe diventata una grande Francia, fino alla riunificazione della Germania. I tedeschi invece sono europeisti per due ragioni: perché conoscono la loro storia e perché, come prima la Francia, la Germania sa di essere la sola grande potenza europea e può costruire l’Europa a propria immagine e somiglianza”. Marion Van Renterghem, scrittrice e giornalista che ha appena pubblicato un libro che è un viaggio nel tempo (gli ultimi trent’anni) e nello spazio europeo, è meno brutale ma comunque negativa: “Il cuore franco-tedesco è un appuntamento mancato”, dice, ma secondo lei è la Germania a essere in una fase meno europeista rispetto alla Francia.

 

Il cuore franco-tedesco è un po’ sofferente ma la mania di dargli addosso fa parte della cassetta degli attrezzi dei nazionalisti

Forse ancora una volta (blues!) sottostimiamo la resistenza del cuore europeo. Nel maggio del 2017, quando Macron era appena stato eletto all’Eliseo e la grande paura del collasso europeo occidentale pareva passata, Merkel disse: “Ogni inizio contiene una magia”. Macron era alla sua prima visita a Berlino da presidente, la cancelliera citava Hermann Hesse e invitava tutti a rimboccarsi le maniche per conservare e anzi far crescere la magia europeista. Le prospettive allora erano rosee, anche quelle economiche: gli esperti parlavano di una ripresa in sincrono di molti paesi, un allineamento di stelle che capita molto di rado, una magia di cui gli europeisti volevano approfittare. Nel 2018 l’incantesimo si è infranto – il governo gialloverde italiano ha giocato un ruolo cruciale in questo schianto – e sono cambiati anche gli equilibri all’interno della coppia franco-tedesca: la Merkel è nella fase finale della sua (lunga) carriera politica, Macron è all’inizio, giustamente scalpitante. La cancelliera ha accettato che fosse il presidente francese il supereroe del riscatto europeista, con i suoi tanti cantieri, i suoi discorsi valoriali e la sua visione di Rinascimento, l’antidoto alla paura e alla rabbia che caratterizzano l’immaginario – chiamiamolo così, con benevolenza: è più una cassetta degli attrezzi – dei nazionalisti. Questa inversione di ruoli è avvenuta con naturalezza, e senza conflitti, ma nel frattempo la Francia ha anche cercato un riequilibrio della sua posizione nei confronti della Germania: con lo choc economico del 2008, di fatto Parigi si era accodata a Berlino, con qualche ritrosia ma senza la possibilità di fornire alternative. Ora Macron cerca una nuova autonomia, e questo ha acuito le tensioni con la Germania: quando la Merkel dice, come ha fatto nell’ultima intervista alla Süddeutsche Zeitung la settimana scorsa, che spesso i suoi rapporti con Macron sono una gara di wrestling, fa riferimento in particolare alle divergenze politiche, sul completamento del mercato unico per esempio. Ma “siamo sulla stessa lunghezza d’onda”, precisa la Merkel, e questa lunghezza è quella che si deve misurare in queste “elezioni speciali”, di vita o di morte.

 

Sui precipizi, l’Europa finora ha ritrovato la sua forza. La Grexit, la Brexit, l’arrivo di Trump, l’ingerenza di Putin, le offerte di Xi, persino la crisi economica alleviata dal “whatever it takes” di Mario Draghi si sono rivelati episodi di salvezza: nel bordello inimmaginabile quel che ti tiene su potrebbe anche buttarti giù. Vivere pericolosamente non sembra una strategia naturale per una struttura lenta e pigra com’è l’Europa, ma in questi dieci anni ha funzionato. Ora lo sforzo richiesto è maggiore, è un guizzo, è un immaginario condiviso, è trasformare l’europeismo percepito in vita quotidiana. Olivier Guez dice: “Abbiamo creato un’unione economica e monetaria, ma manca quel che consentirebbe agli italiani, ai francesi, ai polacchi, agli sloveni, ai tedeschi di avere un sentimento di appartenenza. Facciamo parte della stessa famiglia se condividiamo un immaginario comune. E’ così che si sono costruite le nazioni europee nel Diciannovesimo e nel Ventesimo secolo, ed è ciò che manca nella costruzione europea. Purtroppo l’immaginario non si crea parlando, di questo passo ognuno continuerà a sentirsi parte soltanto della propria nazione, regione, città. Ma bisogna porsi una domanda: un paese europeo è sufficientemente grande, forte e potente per resistere alla competizione mondializzata? Io penso di no”. La salvezza sta in noi, cinquecento milioni di persone che, pur arrabbiandosi per la propria cotoletta, sanno che l’Europa è uno scudo poderoso. Come scrive lo storico francese Denis Lacorne ne “Les frontières de la tolérance”, i leader possono scegliere se “alimentare i pochi che vogliono la rissa o mobilitare i tanti che vogliono vivere bene e in pace”. Anche noi possiamo scegliere: è un calcolo banale, che insegna a cogliere il tempo, a dotarsi di una leadership innovativa (non rifilateci Spitzenkandidaten sconosciuti e senza pubblico), smascherando l’opportunismo di chi dice buon senso e intende macerie. La poesia di Herman Hesse, citata dalla Merkel al suo primo abbraccio con Macron, continua così: “Dobbiamo attraversare spazi e spazi, senza fermare in alcun d’essi il piede, lo spirto universal non vuol legarci, ma su di grado in grado sollevarci”. Magari poi vola, l’europeismo.

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