Giancarlo Giorgetti (LaPresse)

L'idea del “partito transatlantico” con Giorgetti leader che piace agli Usa

Valerio Valentini

Il sottosegretario, ospite a Milano della Camera di commercio americana in Italia, ha alluso senza troppi giri di parole alla possibilità di un cambio di governo

Roma. A un certo punto, dice chi c’era, la soluzione è apparsa evidente a tutti senza che nessuno davvero la descrivesse. Non nel dettaglio, almeno. “Un partito transatlantico”, pare lo abbia definito con un po’ di enfasi Simone Crolla, direttore della Camera di commercio americana in Italia. Un partito dai connotati e dai confini ancora vaghi, ma che avrebbe come “garante”, se non come vero e proprio leader, proprio quel Giancarlo Giorgetti che lunedì sera, rinunciando perfino a un Consiglio dei ministri che si preannunciava assai tribolato, ha fatto di tutto per arrivare puntuale, dopo una giornata di campagna elettorale trascorsa tra Cremona e Mantova, al numero 6 di via del Gesù, a Milano.

 

Era lì, nella sala hall del lussuoso Hotel Four Season, che i vertici della AmCham, punto di raccordo per tanti investitori americani che fanno affari in Italia, un po’ think tank ufficioso e un po’ camera di compensazione di interessi politici ed economici, aveva organizzato la sua cena più importante degli ultimi mesi. C’erano infatti l’ambasciatore italiano a Washington, Armando Varricchio, e quello americano a Roma, Lewis Eisenberg; e poi c’erano i vertici di importanti imprese e partecipate di stato italiane, da Leonardo a Mapei a Campari, oltre che di colossi americani come Lockheed Martin, Google e General Electric.

 

E tutti, a metà della serata, si sono ritrovati ad applaudire l’intervento del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che ha alluso senza troppi giri di parole alla possibilità di un cambio di governo. “Uno stallo del genere, con gli alleati perennemente in lite su tutto, non fa bene né alle nostre imprese né a chi vorrebbe investire in Italia, o quantomeno non essere costretto a fuggirne”, ha detto, stando a quanto raccontano i presenti, Giorgetti. Camicia bianca col primo bottone allentato, cravatta verde quasi d’ordinanza, l’uomo delle grandi manovre della Lega ha esordito con un mezzo sorriso, quasi a voler smorzare le polemiche che tutto il giorno lo avevano rincorso dopo la sua critica a Giuseppe Conte (“Non è imparziale”) e la replica abbastanza stizzita del premier. “Spero che non sia lesa maestà dire che se questo governo non è in grado di risolvere i problemi che è chiamato ad affrontare, non ha senso che rimanga in carica”.

 

E allora? “E allora – è proseguito il ragionamento di Giorgetti, secondo il resoconto di chi lo ha ascoltato – la democrazia è sovrana: se gli italiani mostreranno l’intenzione di cambiare i rapporti di forza, bisognerà prenderne atto”. Un’allusione fin troppo chiara alla rottura che potrebbe seguire al voto delle Europee: ipotesi su cui – sempre che le urne sanciscano un distacco netto, di almeno sette o otto punti, tra Lega e M5s – Giorgetti è sempre più convinto, ma che ieri non ha citato esplicitamente. “Giancarlo continua a ripeterlo a Matteo”, dice chi frequenta entrambi, nel Carroccio, “che bisogna forzare subito, all’indomani del 26 maggio. Imporre una svolta netta al programma di governo, rivedere radicalmente il contratto, e se possibile rompere in tempi rapidi, rapidissimi, per votare prima che si entri nel vivo della prossima legge di Bilancio”.

 

A quella non ha però fatto riferimento, lunedì, Giorgetti, concentrandosi invece sulla politica estera dell’Italia. Del resto, tra una portata di cavatelli al pesto di zucchine e gamberi, e un secondo a base di pesce al forno, il sottosegretario aveva già dovuto abbozzare di fronte alla strigliata di Eisenberg, che come ha già più volte fatto in privato ha rinnovato anche in quella sede, a Giorgetti, i dubbi per le “ambiguità” italiane in campo geopolitico. Riferimento obbligato al memorandum della Via della Seta: un documento di per sé inconsistente, ha spiegato l’ambasciatore americano, ma la cui firma ha costituito un grave sbandamento dal punto di vista diplomatico. “Ha detto chiaramente che rischiamo di deragliare dai binari storici della nostra politica estera”, riferiscono i presenti.

 

E anche per questo, allora, “la suggestione” è nata spontanea, ma restando come a mezz’aria: una ricomposizione della maggioranza di governo, laddove non fosse possibile passare per una nuova tornata elettorale, imperniata appunto sull’atlantismo centro di gravità dell’agenda politica, con tutto quel che ne consegue anche in termini di economia. “Un rassemblement moderato”, dice chi c’era, che permetta di integrare la classe dirigente leghista, considerata ancora abbastanza immatura nel complesso, con quella di altre forze politiche. Un azzardo, certo. “Un’ipotesi al momento molto fumosa”, confermano nella Lega. E l’idea di Giorgetti come leader? “Dipendesse dall’applausometro del Four Season – riferiscono gli invitati alla cena milanese – sarebbe cosa fatta”.

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