Donald Trump e Matteo Salvini

Salvini e la bufala del Trump europeo

Claudio Cerasa

Perché il trumpismo è diventato un termometro per misurare l’impotenza del populismo europeo

Può piacere o non piacere, può attirare o far ribrezzo, può interessare o annoiare, ma alla fine dei conti c’è un dato di fatto difficilmente contestabile: a pochi giorni dalle elezioni europee, tutti i principali giornali internazionali si stanno rendendo conto che il vero protagonista della campagna elettorale in corso è uno e soltanto uno e si chiama Matteo Salvini. A Salvini, e alla rete di Steve Bannon, ha dedicato la sua ultima column sul New York Times Roger Cohen. A Salvini, al “nuovo uomo forte dell’Europa”, ha dedicato la copertina l’ultimo numero del Point. A Salvini hanno dedicato un lungo ritratto Bloomberg, il Daily Express e La Vanguardia.

  

  

Al centro di buona parte delle analisi sul fenomeno Salvini non c’è nulla di relativo a ciò che il leader della Lega ha combinato in un anno passato al governo – persino quando parla di immigrazione ormai Salvini prende diversi pesci in faccia: ieri ha tentato di strumentalizzare un incendio appiccato da un clandestino nella stazione della polizia municipale di Mirandola senza rendersi conto che quel clandestino era stato già fermato a Roma lo scorso 14 maggio ed era da allora in attesa di essere espulso – ma c’è un tema che merita di essere messo a fuoco e che riguarda una suggestione che il leader della Lega sta cercando di alimentare: diventare la versione europea di Donald Trump. Due giorni fa, Matteo Salvini ha detto che “l’Italia ha la necessità di lanciare uno choc fiscale simile a quello varato dall’America di Trump”. Mercoledì scorso, a Potenza, Matteo Salvini ha detto che sulle politiche economiche l’Italia dovrebbe avere lo stesso coraggio avuto da Trump “senza preoccuparsi troppo dei no, dei limiti, dei vincoli, dei dubbi”. Sabato scorso il New York Times ha spiegato ai suoi lettori perché Steve Bannon è un fan of “Italy’s Donald Trump”. E in tutte le principali apparizioni pubbliche il leader della Lega, il Truce, tenta in tutti i modi di spiegare perché ha intenzione di esportare al più presto in Italia e in Europa la rivoluzione trumpiana.

 

Per buona parte dell’internazionale sovranista, il trumpismo, almeno fino a oggi, ha coinciso principalmente con l’espressione “antieuropeismo” ed è stato un semplice collante ideologico per dare una dignità alla propria fase destruens. Più però i sovranisti si avvicinano alla fase costruens e più il trumpismo diventa qualcosa di diverso, più simile a un termometro capace di misurare ogni giorno l’impotenza del populismo europeo. Vale quando si parla d’economia (Salvini ha fatto una manovra in deficit e a debito, come Trump, ma ha usato il deficit per pensioni e reddito di cittadinanza, non per tagliare le tasse e stimolare la crescita). Vale quando si parla di geopolitica (Salvini sta cercando in tutti i modi di investire sull’alleanza atlantica ma il governo che ha approvato il memorandum di intesa con la Cina è quello di cui Salvini è vicepremier e il sottosegretario allo Sviluppo che ha promosso l’accordo con la Cina, Michele Geraci, è quello indicato da Salvini come numero due di Di Maio al Mise). Vale quando si parla di capacità di poter incidere sul futuro dell’Europa. Essere trumpiani in Europa, per i trumpiani d’Europa, non è semplice perché i sovranisti europei sanno che per poter contare in Europa occorrerebbe maneggiare una pratica che sembra però non interessare ai nazionalisti del nostro continente: l’arte del compromesso.

 

Donald Trump non è certo il testimonial giusto per magnificare l’arte del compromesso ma più si avvicineranno le elezioni e più sarà chiaro quanto i partiti sovranisti pagheranno cara la propria incompatibilità con le altre famiglie politiche presenti in Europa, che con ogni probabilità guideranno le danze nel prossimo Parlamento europeo. In questo senso, i trumpiani d’Europa, per poter contare qualcosa nella fase costruens, avrebbero un bisogno disperato di trovarsi nelle stesse condizioni in cui si trova Donald Trump: usare un partito tradizionale per veicolare il proprio famigerato progetto rivoluzionario. Senza una normalizzazione, senza fare i conti con la realtà e con gli splendidi cuscinetti e arbitri dell’Europa, il nazionalismo resterà un movimento irresponsabile tutto chiacchiere, distintivi, diversivi e progetti eversivi. Fare un passo verso la normalizzazione (che per la Lega vorrebbe dire per esempio scegliere di entrare nel Ppe) significherebbe poter contare qualcosa ma significherebbe anche assumersi delle responsabilità. Ma siamo così sicuri che il populismo sovranista abbia tutta questa voglia di uscire dallo status dell’irresponsabilità e di confrontarsi sempre meno con i tweet e sempre più con la realtà? La differenza tra essere un animale politico ed essere una tigre di carta in fondo è tutta qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.