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Il governo sarà del cambiamento, ma le parole quelle dell'eterna Dc

Salvatore Merlo

Tra “fase due“ e “cabina di regia”, “palude” e “rimpasto”. Salvini e Di Maio sembrano tanto più saldi quanto più litigano (su internet) e stanno fermi (al governo)

Roma. Giancarlo Giorgetti, l’uomo che tenta di governare mentre Salvini e Di Maio si esercitano nella campagna elettorale permanente, l’ha chiamata “paralisi”. Luca Zaia, il pragmatico presidente leghista del Veneto, è invece ricorso al temine “palude”. Mentre Giorgia Meloni, che osserva interessata dall’esterno, ha usato la parola “stallo”, perché, ha detto il capo di Fratelli d’Italia, “questi del governo non riescono a decidere neanche sulle questioni più semplici”. E allora, nel momento in cui Di Maio e Salvini si scambiano botte da orbi attraverso giornali, internet e agenzie, e lo fanno con un ritmo sempre più serrato tanto più si avvicina la domenica elettorale, mentre il destino del prossimo Consiglio dei ministri rimane sospeso e misterioso – ci sarà? Quando? Come? –, mentre insomma all’agitazione comunicativa corrisponde il torpore amministrativo, ecco che nei capannelli alla Camera e al Senato, i parlamentari di maggiore esperienza un po’ ridacchiano e un po’ sono preoccupati. “Paralisi e palude erano lo strumento di governo della Dc”, dice Ignazio La Russa, che le ha viste tutte. “Il principio era questo: se ti trovi nell’incapacità di fare qualcosa, è meglio non fare niente. E ci sono stati governi che hanno campato a lungo così. La differenza col passato è che nella Prima Repubblica la palude serviva ad attutire il clamore e i contrasti. Mentre adesso c’è, come dire… una palude rumorosa”. E insomma la “palude” di Zaia, la “paralisi” di Giorgetti, lo “stallo” di Meloni, scintillano agli occhi dei soci di governo come una promessa di felicità che equivale alla potenza di una ossessione: durare, durare e ancora durare. “Perché di solito, quelli che cadono sono i governi che fanno le riforme. Non quelli che pasticciano”, dice Pier Ferdinando Casini. 

  

Salvini e Di Maio, sempre più immersi nel loro conflitto che serpeggia e scoppietta, ma che pure democristianamente mai davvero esplode, sembrano allora tanto più saldi quanto più stanno fermi, proprio come accadeva un tempo. Mentre tutt’intorno a loro, e alla loro flemma litigarella, tornano a risuonare parole e richiami che si credevano invece morti per sempre. Ieri Di Maio ha parlato di “fase due” dell’azione di governo, Giuseppe Conte ha invece evocato la “cabina di regia” per gli investimenti, e nella Lega c’è chi mormorando si spinge persino a maneggiare l’idea del “rimpasto” per il dopo Europee. Sicché qualcosa di antico – e che offre suggestioni da contrappasso per un governo cosiddetto “del cambiamento” – precipita su tutti loro, sulla loro giovane età e sul loro giovanilismo social e twittarolo. “Quando sentiremo pronunciare anche la parola ‘verifica’ allora avremo la certezza di essere tornati indietro di trent’anni”, ride La Russa, perché sul serio tra i continui richiami alla “palude” e alla “paralisi”, tra l’evocazione di una “fase due” e di un “rimpasto”, riemergono tutto in una volta antichi canoni che rimandano – oggi come ai tempi di Andreotti e Forlani, con rispetto parlando per Andreotti e Forlani – al precario e rischioso equilibrio tra crisi e continuità, al compromesso esasperato e accanitamente dilatorio, al desiderio d’un voluttuoso (eppure in questo caso rumoroso) immobilismo da compromesso storico. E ciò malgrado, appunto, le continue minacce, gli avvertimenti, i bacioni contundenti e le sparate dal balcone “che fanno parte di una strategia efficace”, dice Casini non senza pessimismo ammirato per la scaltrezza spregiudicata dei gialloverdi: una revisione estetica e sintattica dell’antica palude democristiana. “Per cui “alla fine vedrete”, conclude l’ex presidente della Camera, “l’Italia sarà l’unico paese in cui chi è al governo prenderà il 51 per cento dei voti alle elezioni Europee”. Acclamati dalle folle di Instagram e dei modernissimi social network, Salvini e Di Maio maneggiano in realtà il più inestricabile groviglio di teorie e pratiche da vecchia, inconcludente, ma a quanto pare anche vincente, politicaccia. Ci manca solo l’“appoggio esterno”, che fu materiale satirico per gli sketch in bianco e nero di Alighiero Noschese, che travestito da Ugo La Malfa si appoggiava alla parete esterna di una casa. Potrebbe essere materiale per Fiorello, adesso che pare torni in Rai.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.