Il post sovranismo

Annalisa Chirico

Esistono populisti disciplinati? Sì, ma solo cambiando tutto sull’Europa. Il libro di Tremonti

Spira un inaspettato vento europeista nell’ultimo saggio di Giulio Tremonti. “E’ arrivato il momento per alzare la bandiera dell'orgoglio, uscendo dal paradosso suicida per cui un continente, più è importante nel mondo – come l'Europa – più deve essere debole”, scrive l'ex ministro dell'Economia in “Le tre profezie. Appunti per il futuro”, edito da Solferino. Dal globalismo in crisi alla “cattedrale digitale”, dal delirio immigrazione alla metamorfosi dell'animo umano ai tempi del “digito ergo sum”: il professore consegna un concentrato di pensiero tremontiano, meglio disposto rispetto al passato a smussare certe angolature, merito forse dell’età e di una terza vita da tributarista d’élite e presidente di Aspen Institute Italia. Dal referendum inglese per la Brexit alla vittoria elettorale di Trump trascorrono soltanto 138 giorni e ad una settimana dalle elezioni statunitensi che incoronano l'ex conduttore di “The apprentice” il commander-in-chief Obama commenta: “Non è la fine del mondo”.

 

In effetti, non è la fine del mondo ma è la fine di quel mondo e di quella narrazione globale. Nello scontro tra globalismo e sovranismo, il primo inteso come utopia del “nonluogo”, il secondo del “superluogo”, ciascuno dei due rischia di risultare perdente. I globalisti perderanno il futuro, argomenta il prof, perché il futuro non può essere la replica automatica dei gloriosi decenni passati della globalizzazione. I sovranisti, se estremizzeranno le proprie posizioni, perderanno anche loro, e pure nell’ipotesi che risultassero al principio vincitori, resterebbero comunque “padroni del passato e, solo per poco, perché, subito dopo la vittoria del globalismo, a loro volta perderebbero: senza avere più un comune nemico esterno, sarebbero fatalmente destinati a diventare gli uni i nemici degli altri”. Con il crollo della “cattedrale globalista” s’invera la profezia di Marx e nel mondo occidentale affiorano svariate forme di populismo.

 

Tremonti distingue un populismo “sperimentale” da uno “disciplinato”: il primo si fonda sul “culto della credenza” per cui si crede a tutto e perciò non si crede a niente; esso idolatra l’onestà popolare integrale secondo la quale, se i vecchi politici smettono di rubare, allora tutti possiamo permetterci di alloggiare in un “5 stelle”; i tweet diventano formule magiche e la felicità prende il posto del Pil. Il secondo invece è il populismo che coglie la sfida della saggezza, che arringa le folle per conquistare il potere ma, una volta insediatosi nella stanza dei bottoni, è capace di articolare responsabilmente le politiche da implementare. “Questo è un populismo che non va demonizzato – dice l’autore – e che ha possibilità e probabilità di successo direttamente proporzionali tanto alla sua possibile saggezza quanto alla sicura ‘stupidità’ delle attuali classi dirigenti e della loro incapacità di intendere la ‘ragione dei popoli’”.

 

L’ex ministro sembra voler poi offrire al vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini un suggerimento sul perché l’Europa, piuttosto che distruggerla, occorre rifondarla. Secondo Tremonti, si deve tornare al “momento politicamente più alto dell’Europa”, quello dei Trattati di Roma quando il 25 marzo 1957 fu invocata la benedizione di Dio “per illuminare le menti e guidare le mani di chi andava a firmarlo”. I sei stati che sottoscrissero quegli accordi adottarono un modello confederale con una struttura istituzionale piramidale, larga in basso e stretta in alto: devolvevano verso il supergoverno le competenze legislative e amministrative necessarie per costruire il mercato comune, non una di più. Nei successivi passaggi, da Maastricht in poi, la piramide si sarebbe rovesciata al punto da assegnare a Bruxelles ventisei competenze esclusive con la progressiva edificazione di una megamacchina burocratica sempre più distante dai cittadini e dai loro effettivi bisogni. “Come nel 1957 l'Europa si è concentrata sull’essenziale, sull’agricoltura e sull’idea del mercato comune, così oggi l’Europa dovrebbe e potrebbe concentrarsi su ciò che è essenziale e popolare: sulla difesa, sulla sicurezza, sull’intelligence”. Esercito comune, maggiore collaborazione tra i servizi di informazione nella comune lotta al terrorismo, un impegno diretto, europeo, finanziato anche con l’emissione di Eurobond: il Tremonti che non ti aspetti afferma che l’euro doveva federare i cuori e invece ha federato soltanto i portafogli, ma poi lo definisce “irreversibile”, un prodotto di ingegneria sociale da preservare innanzitutto per la paura di ciò che la sua scomparsa provocherebbe. Per il Tremonti cultore del pensiero romantico, di Leopardi e Goethe, la profezia del Faust sul potere mefistofelico del denaro si estende alla “cattedrale digitale” ai tempi del “digito ergo sum”: oggi la Rete consente a tutti di uscire dal mondo reale per entrare in quello virtuale.

 

Tremonti mette in guardia da “sette vizi digitali” in grado di modificare il nostro modo di vivere e di pensare: con una parola sempre più sincopata emerge la “clausura del pensiero”, la dittatura dell’algoritmo, il software che colonizza l’immaginazione, la velocità che impedisce la riflessione, dove lo studio è un optional perché ogni concetto può essere digitato, e le scelte si riducono alla selezione dei pulsanti sulla tastiera. In questo abisso esistenziale rischia di compiersi la separazione dell’uomo dalla sua coscienza morale. La tecnologia, lungi dall’essere demonizzata, va promossa con cautela, con la logica del “giusto mezzo”, per evitare che essa ci allontani dall'umanesimo. Nella modernità, con la cattedrale digitale che invade prepotente le nostre esistenze, la sfida principale è restare umani. Conservare un’anima e ricordarsi delle proprie radici. “Le radici da sole non bastano, ma senza radici non si sta in piedi”.

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