Imagoeconomica

Il dramma di un paese che trasforma la crescita in un valore negoziabile

Claudio Cerasa

Le tasse possono far cadere i governi, il pil no: perché?

It’s not the economy, stupid. C’è una domanda importante, cruciale, decisiva ma forse senza risposta che nell’epoca del sovranismo irresponsabile ciascun osservatore con la testa sulle spalle dovrebbe porsi ogni volta che sulla timeline del dibattito quotidiano compare un qualche numero legato agli scenari economici, alle previsioni sul futuro e alle stime sul prodotto interno lordo. Il tema potrebbe suonare grosso modo così: quand’è che la crescita, nell’agenda degli elettori, ha smesso di essere una priorità? Il tema della bandiera del pil che non c’è più è un tema particolarmente interessante per un paese a bassa crescita come l’Italia dove i partiti che nel passato hanno dato un discreto contributo alla risalita del prodotto interno lordo sono stati sonoramente sconfitti alle elezioni e dove i partiti che oggi stanno dando un discreto contributo alla decrescita sembrano essere tutto sommato poco colpiti dal collasso economico, dalla recessione incombente e dalle notizie apocalittiche sul futuro.

 

Il ragionamento vale per l’Italia ma vale anche per molti altri paesi i cui elettori hanno dimostrato più volte negli ultimi tempi di non considerare un argomento prioritario l’impatto che la politica di governo ha avuto sulla crescita (Trump ha vinto quando l’economia americana andava che era una meraviglia, i brexiteers hanno vinto quando l’economia inglese andava che era una meraviglia). Si potrebbe provare a rispondere alla domanda da cui siamo partiti limitandoci a notare che la crescita è un dogma che si è afflosciato anche perché gli elettori, specie nei paesi dall’alto livello di benessere, oggi sembrano intenzionati a premiare maggiormente i partiti che offrono le risposte più immediate sul tema della paura, della sicurezza, dell’immigrazione.

 

Ma la verità è che nell’èra dell’impazienza, nella società del narcisismo, nell’epoca delle risposte facili alle domande complesse, coloro che oggi provano a combattere il cialtronismo sovranista limitandosi a usare i numeri freddi della crescita, i dati gelidi dello spread, le percentuali incomprensibili dei rendimenti dei titoli di stato non riescono a far presa sugli elettori come dovrebbero per almeno due ragioni: da un lato perché stanno vendendo una paura al posto di un sogno, dall’altro perché la crescita non è più percepita come un veicolo di miglioramento della nostra vita.

 

C’è chi dice che parlare di crescita sia diventato un tema secondario perché nei paesi dall’alto livello di benessere ciò che conta non è quanto si cresce ma è la nostra soglia di slancio, ovvero la capacità di vedere migliorare la nostra condizione personale, considerando acquisito ciò che già si ha. C'è chi dice che parlare di crescita sia diventato secondario perché il vero dramma dei paesi occidentali è legato più alla diseguaglianza che al prodotto interno lordo – anche se i principali indici che la misurano ci dicono che la diseguaglianza in Italia sia rimasta pressoché stabile negli ultimi vent’anni. Ma quale che sia la risposta che ciascuno di noi può dare di fronte a questo tema non si tratta di dire se l’approccio sia giusto oppure sbagliato (sapete cosa pensiamo). Si tratta di capire che se in Italia la quasi totalità delle forze produttive denuncia ogni giorno la pericolosità della traiettoria sovranista nell’indifferenza degli elettori occorre fare uno sforzo in più per comprendere cosa possa fare una classe politica con la testa sulle spalle per spostare l’attenzione degli elettori dalle percezioni alla realtà.

 

Il ragionamento che abbiamo fatto vale quando al centro del dibattito c’è il tema del pil, i cui effetti, nel bene e nel male, possono avere un impatto sulle nostre vite più nel futuro che nel presente, ragione per la quale non c’è una diretta corrispondenza tra la crescita di un paese e la crescita di un partito.

  

Arrivati a questo punto del ragionamento la domanda ulteriore sulla quale bisognerebbe riflettere riguarda un tema finito ieri al centro del dibattito: la possibilità, evocata dal ministro dell’Economia Giovanni Tria, che dal 1° gennaio 2019 su alcuni beni l’Iva aumenti davvero. Sul breve termine, un governo non si rafforza perché il pil va su e viceversa non si indebolisce perché il pil va giù. Ma sempre per ragionare sul breve termine, si può dire lo stesso quando si parla di tasse? Il pil (che sta scendendo) non si tocca, le tasse (che stanno salendo) sì. Salvini lo sa. E se dopo le europee il Truce deciderà di far cadere il governo, lo farà non perché il pil non va su, ma perché le tasse non vanno giù.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.