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Tutte le verità che il Def non dice. Così il governo stronca l'economia

Mario Baldassarri

Oltre la decrescita. Tra Iva e privatizzazioni illusorie avremo una manovra da 60 miliardi senza sviluppo e con i conti a rischio

Due sono le riflessioni di fondo sul testo ufficiale del Def pubblicato nel sito del ministero dell’Economia.

 

La prima è la non coerenza dei quadri macroeconomici con i conseguenti quadri di finanza pubblica.

 

La seconda è la misura degli effetti delle politiche economiche del governo espressa “direttamente” dallo stesso governo.

 

Prima il quadro di finanza pubblica. Nel Def si indica un tasso di crescita del pil per il 2019 pari allo 0,2 per cento che “balza” allo 0,8 nel 2020, 2021, 2022. Di conseguenza il tasso di disoccupazione, dal 10,6 per cento dello scorso anno salirebbe all’11,1 nel 2020, per poi ridursi al 10,7 ed al 10,4 nel 2021 e 2022. Di fatto si tornerebbe alla disoccupazione del 2018… nel 2022! A fronte di questo, il deficit pubblico si dovrebbe portare al 2,4 per cento del pil quest’anno per poi scendere al 2,1, 1,8, 1,5 dal 2020 in poi. Di fatto si elimina il miglioramento concordato prima di Natale con la Commissione europea e si torna al deficit indicato il 27 settembre dello scorso anno nella nota di aggiornamento Def 2018 quando poi si fece festa dal balcone di Palazzo Chigi. Il debito pubblico in rapporto al pil “aumenta” al 132,6 nel 2019 per poi scendere al 131,3, 130,2, 128,9 negli anni successivi. Si tratterebbe di una riduzione del 3,3 per cento in quattro anni pari allo 0,8 all’anno. Questi quadri macroeconomici risultano del tutto incoerenti con quelli di finanza pubblica.

 

Il nodo consiste nel fatto che, delle due l’una: se aumenta l’Iva come previsto a legislazione vigente dalle clausole di salvaguardia, la crescita del 2020 andrà ben sotto lo zero (tra il meno 1 e il meno 2 per cento); se non aumenta l’Iva nel 2020, una crescita allo 0,8 per cento potrebbe anche essere raggiungibile, ma contestualmente il deficit pubblico balzerebbe verso il 3,5 per cento e il debito pubblico andrebbe verso il 135 del pil.

 

Veniamo agli effetti di politica economica. Dal confronto tra gli andamenti “tendenziali” e quelli “programmatici” si ricava la misura degli effetti delle politiche economiche proposte dal governo, secondo i dati espressi dallo stesso governo. Gli effetti che il governo si attende dalle sue politiche economici risultano pari a un impulso alla crescita dello 0,1 per cento quest’anno e dello 0,2 nel 2020. Nel successivo biennio l’impulso totale è nullo. A fronte di questo minuscolo ed effimero impatto sulla crescita, la politica economica del governo “peggiora” le condizioni di deficit e debito pubblico. Il deficit è stato pressoché raddoppiato dalla legge di Bilancio 2019 e di conseguenza il debito accresciuto di atri 150 miliardi circa tra qui ed il 2022 con un rapporto al pil che continua ad aumentare quest’anno e si dovrebbe ridurre di qualche decimale nei prossimi anni. Di fatto però i dati del Def fanno riferimento a un quadro di “politiche invariate” e non del tutto a un quadro “programmatico”. Infatti i provvedimenti da inserire in autunno della legge di Bilancio per il 2020 sono solo indicati per generici titoli senza alcuna quantificazione. E’ bene allora fare un po’ di chiarezza da subito. Già oggi si profila per settembre una situazione che richiederebbe 23,5 miliardi di euro per evitare l’aumento dell’Iva, circa 10 miliardi per i maggiori costi dell’andata a regine di quota 100 e reddito di cittadinanza e altri 8 miliardi circa di minori entrate dovuti alla forte riduzione delle previsioni di crescita. In totale quindi fanno circa 41,5 miliardi. Inoltre non è credibile la previsione di privatizzazioni (vendite immobiliari) che dovrebbe dare ben 18 miliardi di entrate entro il 2019. Se mancassero sarebbero altri 18 miliardi di risorse da trovare in altri modi. A settembre pertanto, occorrerebbe trovare quasi 60 miliardi!!! E questo senza fare politica economica per il 2020. Basti pensare che se si volesse introdurre soltanto una flat tax al 15 per cento costerebbe circa 90 miliardi, al 23 circa 60 miliardi. Se la flat tax si applicasse “soltanto” al di sotto di un reddito di 50 mila euro il costo sarebbe comunque tra i 25 ed i 35 miliardi di euro. In sintesi, i dati del Def indicano che la situazione è in netto peggioramento sul fronte della crescita e dell’occupazione, in grave rischio e pericolo sul fronte dei conti pubblici con una prospettiva a settembre che richiederebbe una manovra di molte decine di miliardi di euro.

 

Ci si potrebbe allora chiedere: ma valeva proprio la pena di fare tutto questo per ottenere un effetto sulla crescita pari allo 0,1-0,2 per cento, per avere un aumento della disoccupazione che tornerà al 2018 soltanto nel 2022 e contestualmente ponendo a serio rischio la finanza pubblica? Stiamo vivendo una fase di rallentamento dell’economia mondiale ed europea, ma queste “riflessioni” non hanno niente a che vedere con quel quadro “esterno”. Queste analisi sono riferite esclusivamente al quadro “interno” dovuto alle linee di politica economica seguite a partire dalla legge di Bilancio 2019 e a quanto si profila per quella del 2020.

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