(foto LaPresse)

Perché l'Italia non può fare a meno del nuovo pacchetto europeo

Carlo Altomonte e Fabio Pammolli

Sure, Bei, Mes e l’impegno per un Recovery plan. Insieme all’intervento della Bce (Pepp e Omt) sono un buon accordo

Meno di venti minuti. Questo il tempo passato tra l’annuncio, senza dettagli, di un accordo sul pacchetto di aiuti fiscali per il Coronavirus da parte dei ministri delle finanze europei, e le prime isteriche reazioni in Italia, al grido: “No Mes! Vogliamo gli Eurobond!”. Quanto è razionale questa posizione, e quale aiuto ci può dare invece l’accordo europeo? Partiamo dall’evidenza. Il paese è sprofondato nella voragine aperta da Covid-19 mentre, da anni, procedeva stancamente lungo un sentiero di crescita prossima allo zero e di debito elevato. Lo stop è stato improvviso, come un violento terremoto, di cui però non si conosce ancora la durata. Non sappiamo ancora quanto sia profonda la buca, né si vedono funi forti, in termini di protocolli e di meccanismi di messa a terra, per un pronto sollevamento. Fatto sta che l’Italia, a fine anno, avrà un rapporto debito/pil ampiamente sopra al 150 per cento. Senza la cornice della politica monetaria europea e senza l’intervento della Bce, che fino a dicembre acquisterà titoli italiani sul mercato per circa 140 miliardi di euro con il programma “Pepp”, avremmo già perso l’accesso al mercato e non saremmo in grado di indebitarci per sostenere lavoratori, famiglie e imprese. Con buona pace di chi racconta di un’Europa matrigna.

 

Se quella di Francoforte fosse l’unica soluzione europea sul tavolo, rimarremmo per sempre “ostaggio di Pepp”, ossia della volontà, e della possibilità, della Bce di continuare a sostenere il debito italiano con continui acquisti di titoli. Scenario possibile, ma solo entro certi limiti, visto che si dovrà pur rispettare una qualche proporzionalità di acquisti del debito tra i paesi dell’Eurozona. Trattato alla mano, la “deroga” al meccanismo delle capital keys si può fare nel breve periodo, ma non per sempre.

 

Per questo motivo, l’unico modo che l’Italia ha per venire fuori dalla crisi del coronavirus con una ragionevole speranza di ripresa è che una parte del nuovo debito che si andrà a generare possa in qualche modo essere “segregato” nella pancia delle istituzioni europee, in maniera tale che il rapporto debito/pil da finanziare sul mercato aumenti in misura inferiore e dunque gestibile. A questo riguardo, la bozza di accordo prevede diversi elementi di novità, ognuno dei quali potrebbe contribuire a sgravare le spese nazionali spostandone l’onere sul fronte comunitario.

 

Il primo è un tassello importante. Per la prima volta si introduce uno strumento europeo di sostegno alla disoccupazione (Sure), sotto forma di prestiti agevolati dall’Ue agli stati membri. I prestiti saranno garantiti dagli stessi stati membri (per un totale di 25 miliardi di euro), e concorreranno a coprire i costi di istituzione o estensione di regimi nazionali di cassa integrazione. Poiché non vi sono dotazioni prestabilite sull’ammontare di prestito che i singoli stati potranno ricevere, si ha una parziale mutualizzazione di risorse comunitarie per circa 100 miliardi €di euro. 

 

Il secondo pilastro è il coinvolgimento del capitale libero della Bei (50 miliardi) a sostegno delle operazioni di garanzie sui prestiti necessarie per veicolare attraverso il sistema bancario liquidità alle imprese nel più breve tempo possibile. Con una formula ormai consolidata, Bei contribuirebbe a “integrare” parte di queste garanzie nazionali (dunque riducendone l’importo a carico dello stato), per un volume pari a 200 miliardi di euro. 

 

Il terzo cardine prevede l’attivazione, all’interno del Mes, di una nuova linea di credito temporanea, attivabile su richiesta dagli stati membri (Pandemic crisis support), che finanzia le spese sanitarie dirette e indirette legate al coronavirus. La novità è che la Germania (e infine anche l’Olanda) ha accettato una condizionalità molto bassa su questo strumento, comune per tutti gli stati membri. Il credito è erogato semplicemente a fronte di un piano di spese per l’emergenza sanitaria, fino al 2 per cento del Pil di ogni stato.

 

I critici sostengono che sia un Mes solo fintamente buono, perché la condizionalità potrebbe essere rivista in peggio in futuro, e l’Italia rimarrebbe sotto lo scacco di un incombente giudizio di ristrutturazione del debito. Si tratta, però, di uno scenario scongiurabile. Qualora l’Italia decidesse di usare questo strumento, nelle guidelines che si dovranno negoziare si dovrà chiedere che l’erogazione della linea di credito avvenga in un’unica soluzione, e che l’analisi di sostenibilità del debito riguardi lo stato dei conti pubblici a oggi, senza nessun riferimento a riforme future. Infine l’accordo prevede, una volta passata la crisi, una condizionalità legata al rispetto delle regole di finanza pubblica europea, nelle modalità in cui esse verranno reintrodotte dalla Commissione. Qui basta evitare che tale condizionalità sia sottoposta alla “enhanced surveillance”, ma solo alle regole standard del semestre europeo. Trattati alla mano, questo è un impegno che il nostro paese avrebbe comunque, dunque sorprende non poco lo stigma italiano nei confronti di questo nuovo e discrezionale uso del Mes.

 

Facendo due conti, le linee di credito Mes valgono 200 miliardi di euro, che sommati alle altre misure andrebbero a comporre un pacchetto fiscale europeo di circa 500 miliardi. Di questi, 300 miliardi (Sure e linee di credito Mes) sarebbe nuovo debito europeo che copre i debiti nazionali. Si potrebbe esplicitare che l’emissione di questo debito sia acquistata per intero dalla Bce, con un piano di rimborso diluito su un orizzonte temporale pluridecennale. Inoltre, le linee di credito Mes potrebbero attivare anche l’Omt della Bce, questo sì illimitato. Sufficiente? E’ un punto di partenza, ma non basta.

 

Proprio per questo l’Eurogruppo ieri ha formalizzato l’impegno a definire, in aggiunta a quanto sopra, anche un Recovery Plan (necessariamente multi-annuale) dalla crisi, realizzato con strumenti di finanziamento comunitario da inserire nel bilancio europeo, e del valore di almeno altri 500 miliardi di euro. Anche in questo caso si tratterebbe di debito europeo che, a fronte di un impegno su garanzie future, andrebbe a farsi carico di spese che altrimenti graverebbero sul bilancio nazionale. Questo è un punto chiave per l'Italia, e nel prossimo Consiglio europeo occorrerà negoziare, lavorando per definire una posizione costruttiva insieme a Francia e Spagna, nostri alleati in questa trattativa.

 

Possiamo permetterci di fare a meno di questo pacchetto complessivo in nome di una posizione anti-Mes, a prescindere? No, non possiamo. Rifiutare il Mes “soft” oggi vuol dire far saltare l’accordo sugli Eurobond domani, e rendere più probabile un Mes “hard” in futuro. All’alternativa non ci vogliamo neanche pensare. 

 

Carlo Altomonte, Università Bocconi

Fabio Pammolli, Politecnico di Milano

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