Carlo Bonomi (foto LaPresse)

“L'Italia deve tornare al lavoro”. L'intervista a Bonomi, il nuovo presidente di Confindustria

Claudio Cerasa

I nuovi tic anti industriali. La tentazione di trasformare le imprese in nemiche della salute. Il modello Morandi per ripartire. La lentezza del governo nel ragionare sul dopo

[Aggiornamento 16 aprile 2020] Carlo Bonomi, numero uno di Assolombarda, è stato designato nuovo presidente di Confindustria. Lo ha deciso il consiglio generale dell'associazione con voto online segreto. Bonomi ha avuto la meglio su Licia Mattioli, vicepresidente degli industriali. L'ultima parola, da statuto, spetterà all'assemblea privata dei delegati, convocata il 20 maggio per eleggere formalmente il nuovo presidente e la sua squadra.


 

Esiste un virus che ciascuno di noi cerca nel suo piccolo di combattere ogni giorno e quel virus è lo stesso che ogni giorno uccide migliaia di persone, è lo stesso che da giorni tiene a casa milioni di esseri umani, è lo stesso che da mesi ha traghettato le nostre vite verso l’orrendo lido della paura. Esiste poi un altro virus meno letale ma non meno pericoloso che coincide con una patologia prodotta dalle misure rese necessarie per combattere l’altro virus e la caratteristica di questo secondo virus è quello di essere un veicolo di infezione devastante per il nostro benessere prima ancora che per le nostre vite. Una strategia per governare il primo virus, quello letale, il governo l’ha trovata, sta portando i suoi frutti e ci permetterà di tornare forse non troppo tardi a una pre-normalità. Una strategia per governare il secondo virus, quello economico, che diventerà invece necessaria quando il governo deciderà di riaprire a poco a poco il paese, al momento sembra essere invece una strategia non chiara, in assenza della quale l’Italia rischia di ritrovarsi in un abisso chiamato decrescita. E dunque il tema dei prossimi giorni, e forse delle prossime ore, resta questo: come ripartire, quando ripartire, con cosa ripartire, in che modo ripartire e soprattutto cosa fare per ripartire evitando di rendere vani i sacrifici fatti in questi mesi?

 

Carlo Bonomi è un imprenditore del settore biomedicale, è da anni il presidente di Assolombarda, il prossimo 20 maggio potrebbe diventare il nuovo presidente di Confindustria e in una lunga conversazione con il Foglio accetta di ragionare attorno a quello che è il tema dei temi: come evitare che l’Italia guarisca morendo. “L’Italia vive una fase drammatica e non credo sia opportuno fare polemiche su ciò che è stato fatto finora. Ciò che penso sia utile è ragionare sul futuro e rispetto a ciò mi viene da dire prima di tutto una cosa: è ora di rendersi conto che la fase del tutti a casa non può durare ancora a lungo ed è ora di rendersi conto che in modo graduale l’Italia deve riaprire”. Già, ma come? “C’è bisogno di un modello che metta insieme una sicurezza sanitaria mirata e che ancori a questo la riapertura. Il modello della riapertura deve far leva sul metodo delle tre D. Prima D: dispositivi. Seconda D: dati. Terza D: diagnostica. In altre parole: le imprese che riaprono devono avere i dispositivi adeguati per poter operare in sicurezza, lo stato che permette all’Italia di riaprire in modo graduale deve disporre di dati che identifichino meglio l’ordine di grandezza del contagio con tamponi a tappeto, indagini sierologiche, ricerche su cluster della popolazione per procedere a misure restrittive mirate e chi si occupa di diagnostica precoce deve consentire a chi governa di tenere monitorate le situazioni più a rischio. Faccio due esempi, per capirci. Continuare a parlare di contagi in Italia, senza disaggregare i dati, ha poco senso, perché ci sono zone d’Italia in cui i contagi sono più difficili da gestire e zone in Italia in cui i contagi sono più facili da gestire: è possibile tenere chiuse le due Italie allo stesso modo? E poi: in Corea del sud si è riusciti a contenere la diffusione del virus senza bloccare l’intero sistema e la diffusione del virus è stata tenuta sotto controllo con un grande numero di test mirati, isolamento dei soggetti positivi e loro tracciamento attraverso la geolocalizzazione. Io penso che di questo oggi l’Italia abbia bisogno: non di un sentimento anti industriale, come se chi si occupa di imprese sia un nemico della salute, ma di un serio metodo da adottare per preservare al meglio la salute e la sicurezza di milioni di cittadini e lavoratori italiani”.

 

In che cosa consisterebbe il sentimento anti industriale? “Ho l’impressione che in Italia sia tornato un forte e radicale pregiudizio anti industriale e devo notare che su questo terreno i segnali che ci arrivano dal governo non sono incoraggianti. Mercoledì sera, nel corso della sua conferenza stampa, il presidente del Consiglio, ragionando sulla riapertura del paese, ha affermato che la Costituzione italiana pone la difesa della salute in cima alle sue priorità, ma la frase di Conte è una frase parziale, che rispecchia un paradigma distorto in base al quale la difesa della salute può essere considerata non compatibile con la difesa del lavoro. E’ per questo che oggi il dibattito anche politico si concentra poco sul come riaprire rendendo compatibile la difesa del lavoro con la difesa della salute. Ed è per questo che oggi il mantra culturale sembra essere diventato questo: per tenere in sicurezza i lavoratori non bisogna capire come tenere in sicurezza le aziende ma bisogna semplicemente evitare di riaprirle. Vi sembra possibile?”.

 

Ci dica quando bisognerebbe ripartire. “Il nostro nemico è il virus, lo sappiamo, ma il nostro nemico è anche il tempo. Quanto prima il governo adotterà il modello delle 3 D tanto prima saremo in grado di aprire gradualmente e in piena sicurezza. Non esistono lavori essenziali e lavori non essenziali, coorti anagrafiche o singoli territori: chi può tornare al lavoro deve poterlo fare. Parlare ancora di codice Ateco, onestamente, mi sembra un approccio del secolo scorso”. Che cosa rischia l’Italia nel ritardare l’apertura? “Lo dico fuori dai denti: in assenza di tempi certi su quando si ripartirà il nostro paese rischia l’osso del collo. Quella che stiamo vivendo oggi non è una crisi finanziaria, simile a quella del 2008, ma è una crisi che riguarda l’economia reale, e nel momento in cui ci sono paesi che restano chiusi e altri che restano aperti, i primi rischiano di non avere un futuro. Le faccio due esempi pratici: il settore dell’acciaio e il mondo dell’automotive. Se si interrompono le catene del valore aggiunto, i paesi che hanno bisogno di forniture non bloccano le produzioni ma cambiano semplicemente i fornitori. Se l’Italia resta fuori da queste filiere ne è esclusa per sempre. E se l’Italia non riesce a darsi un metodo per riaprire al più presto le stime che leggo in questi giorni, quelle che vorrebbero una decrescita nel 2020 di dieci punti di pil, penso siano ottimistiche. Per la Lombardia riaprire a maggio, in un contesto di aziende con il fatturato azzerato, significherebbe costringere metà delle imprese lombarde a non essere in grado di pagare gli stipendi già dal prossimo mese”.

 

Il ‘quando’ riaprire è certamente un tema, ma il ‘cosa fare’ quando si riaprirà è un tema altrettanto importante: cosa può fare l’Italia per tentare di trasformare una crisi devastante in una possibile fonte di opportunità? “Non c’è dubbio che sia così. Ma per poter arrivare a una consapevolezza di questo tipo occorre avere una classe politica disposta a svincolarsi dal dividendo elettorale. Non siamo più nella stagione in cui si possono spendere troppi soldi per comprare tempo, siamo già nella stagione in cui i soldi che ci sono vanno utilizzati per investire sul futuro. Facciamo dunque deficit, facciamo dunque debito, naturalmente nella misura del possibile, ma facciamolo per crescere, per investire, per ripartire e non per lasciare a casa le persone”. Il numero magico? “Il numero magico è 500 miliardi, sapendo che sono risorse che l’Italia da sola non ha. Per questo bisogna sapere che serve un aiuto cooperativo europeo: se vogliamo dare uno choc al sistema occorre impostare subito un grande piano di investimenti infrastrutturali. Infrastrutture fisiche ma anche tecnologiche. Abbiamo visto che la crisi generata dalla diffusione del virus ha portato l’Italia dentro a un grande acceleratore del futuro e oggi più che mai sappiamo che non esiste futuro se prima lo stato non offre le condizioni sufficienti per rafforzare la sua rete e far navigare il paese a una velocità all’altezza delle sfide che ci attendono. Il caso Inps di questi giorni parla chiaro. E’ una priorità assoluta. E per farlo c’è solo una strada possibile: utilizzare, per costruire la nuova Italia, lo stesso modello adottato per ricostruire, a Genova, il ponte Morandi”.

 

Ovverosia: muoversi con assoluta e totale libertà potendo derogare, a partire dal codice degli appalti, tutte le norme dell’ordinamento italiano, a esclusione di quelle penali, e ponendo come unico paletto i princìpi inderogabili dell’Unione europea e quelli costituzionali. “C’è bisogno di una serie di deroghe mirate su ciò che ha mostrato di non funzionare come, per esempio, il codice degli appalti. Inoltre, i problemi dell’Italia si risolvono pensando più a ciò che l’Italia può fare per se stessa rispetto a quanto l’Europa può fare per l’Italia. Le dico sinceramente poi che il dibattito sugli strumenti che l’Europa può adottare per aiutare l’Italia non mi trova particolarmente entusiasta. La Commissione ha già allentato il Patto di stabilità, la Bce ha già predisposto un nuovo scudo per proteggere i paesi in difficoltà e se mi si chiede qual è lo strumento giusto per aiutare l’Italia io le rispondo che il problema non è il meccanismo ma è il progetto. Gli Eurobond penso che alla fine si faranno – e penso che per arrivare agli Eurobond sia possibile utilizzare come garanzia anche i 400 miliardi contenuti nel Fondo salva stati – ma se poi l’Italia lascia intendere di voler utilizzare la flessibilità per sostenere il reddito di chi lavora in nero non ci si può stupire se, pandemia o non pandemia, qualche paese europeo possa mostrare una qualche perplessità”.

 

A proposito di futuro: un movimento folle e trasversale prova in questi giorni a dimostrare che il lockdown è la giusta punizione divina per un mondo malato di capitale. Come se ne esce? “Il capitalismo non è il virus ma è la fonte del nostro benessere e io penso che mai come oggi sia chiaro per chi lavora nel mondo produttivo che per poter affrontare le sfide del futuro è necessario trasformare la globalizzazione non in una fonte di paura ma in un veicolo di opportunità. La globalizzazione però uscirà in buona parte mutata e trasformata dalla crisi generata dal coronavirus e penso che nel futuro chiunque viva nel mondo della produzione non potrà che ragionare attorno a due temi: dazi ecologici e investimenti verso la libertà. Voglio dire che il mondo che ci si presenta di fronte oggi è un mondo in cui non dovrà essere più consentito un dumping ecologico e sono convinto che l’Europa dovrà lavorare all’introduzione di dazi verso i paesi che non rispettano gli standard minimi di protezione dell’ambiente”. Per parlare del futuro occorre però parlare ancora del presente e Bonomi per il presente lancia un’idea al mondo della politica. “L’Italia, oltre che una formidabile forza imprenditoriale, ha uno straordinario patrimonio in termini di capitale umano e io penso che questa stagione di crisi dovrebbe portare il nostro ceto dirigente a fare quello che ha spesso mancato di fare in questi anni: mettere da parte le sue divisioni e le sue partigianerie per mettersi al servizio del paese. Sarebbe bello che la politica adottasse un metodo di questo tipo. Per un presidente del Consiglio richiedere opinioni e confronto con i suoi predecessori non è un segno di diminutio ma di arricchimento e oltretutto darebbe un segno tangibile agli italiani di convergenza per le migliori soluzioni. Abbiamo un capitale umano unico e straordinario e sono certo che ancora una volta l’Italia saprà come trasformare una tragedia in un’opportunità per ripartire più uniti e più forti di prima”.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.