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L'emergenza coronavirus giustifica qualsiasi compressione delle nostre libertà?

Vitalba Azzollini

I provvedimenti delle scorse settimane, per quanto giustificati dalla situazione, hanno creato lacerazioni nel diritto che rischiano di divenire più profonde, anche perché basate sul “consenso” della gente

Il 25 marzo scorso, il direttore Cerasa ha scritto che chi si lamenta “per via delle nostre libertà che vengono compresse, per via della nostra privacy che viene violata, per via dei molti poteri che vengono trasferiti dal Parlamento al governo” dovrebbe “ricordarsi una cosa semplice: il presupposto delle libertà è la vita e quando la vita viene minacciata bisognerebbe prenderne atto e ascoltare semplicemente quello che ci chiede di fare chi ci governa”.

 

Sorgono spontanee alcune domande: quali sono i limiti a restrizioni di nostri diritti e libertà fondamentali (di circolazione; di riunione; di culto; di attività politica, sindacale, culturale; di educazione; di impresa)? Chi garantisce che riduzioni di diritti costituzionalmente tutelati - privacy inclusa - siano commisurate ai fini perseguiti? Oppure, dato che c’è l’emergenza da coronavirus, bisogna accettare qualunque compressione?

 

A queste domande deve rispondersi prima sul piano della forma e poi della sostanza, anche se in diritto i due piani sono connessi. Innanzitutto, i limiti formali. Com’è noto, il 23 febbraio scorso, un primo decreto-legge (n. 6/2020, convertito in l. n. 13/2020) aveva conferito al presidente del Consiglio amplissimi poteri di “legiferare” con propri decreti (Dpcm) per il contenimento del contagio: si tratta di atti amministrativi, pertanto non sottoposti al vaglio del Parlamento, che non passano neanche attraverso il Consiglio dei ministri. Tuttavia, alcune libertà fondamentali possono essere limitate solo dalla legge o almeno da un atto avente forza di legge (cosiddetta riserva di legge). Ecco il primo paletto: atti del capo dell’esecutivo, se pure “coperti” da un decreto-legge che gli attribuisce “pieni poteri” per fronteggiare l’emergenza da Covid-19, non paiono bastevoli. I Dpcm adottati finora sono stati “validati” da un secondo decreto-legge il 25 marzo scorso (n. 19), quindi saranno “sanati” dallo scrutinio dal Parlamento in sede di conversione. Ma il problema si porrà comunque per i prossimi decreti, anche se per essi il nuovo provvedimento del governo ha disposto un ambito e un orizzonte temporale più preciso, nonché un’informativa al Parlamento. Peraltro, alto è il rischio che strumenti usati per l’emergenza – decreti ministeriali, anziché i decreti-legge previsti dalla Costituzione per casi di necessità e urgenza – diventino la modalità ordinaria di regolamentazione nelle urgenze. 

 

Sul piano della sostanza, i limiti alla restrizione di diritti essenziali sono indicati nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nel Patto per i diritti civili e politici dell’Onu. A parte un nucleo non sacrificabile in nessun caso (diritto alla vita, divieto di tortura, divieto di riduzione in schiavitù ecc.), i diritti fondamentali in essi sanciti possono essere compressi, in caso di emergenza, solo a determinate condizioni: in particolare, temporaneità, necessità e proporzionalità delle misure restrittive. Le medesime condizioni – declinate come idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto – sono previste anche nel Trattato sull’Unione europea e rappresentano i criteri per definire limiti alla riduzione di libertà fondamentali non solo per le istituzioni Ue, ma per gli Stati membri.

 

“Idoneità” è la capacità del provvedimento dell’autorità di soddisfare gli obiettivi perseguiti. Il criterio di “necessità” attiene alla scelta della misura non solo più appropriata al fine prefissato, ma anche meno restrittiva dei diritti personali, tra quelle utilizzabili. Infine, la “proporzionalità” impone di adottare decisioni che raffrontino e bilancino in modo ponderato tutti gli interessi in gioco. In concreto, questi criteri – argini a compressioni di diritti e libertà, come detto – significano che ogni misura dell’autorità per contrastare la diffusione del virus deve essere necessaria, e non semplicemente utile, meno penalizzante possibile e proporzionata rispetto allo scopo.

 

Tali limiti alla derogabilità e/o sospendibilità di garanzie poste a presidio delle libertà individuali, che si rinvengono anche nella Costituzione, fanno comprendere cosa è finora mancato nelle decisioni del presidente del Consiglio. Infatti, nel susseguirsi di suoi provvedimenti per l’emergenza Covid-19, restrittivi di libertà fondamentali, non sempre è stata chiara la logica da cui erano dettati e, soprattutto, l’indispensabilità di varare nuove misure prima di verificare se quelle precedenti avessero “funzionato”. Perciò sarebbe stato opportuno che ogni Dpcm avesse trovato presupposto in una valutazione del Comitato tecnico scientifico (istituito da ordinanza della Protezione civile del 3 febbraio scorso), resa pubblica per spiegarne ex ante gli effetti, nonché la ponderazione tra costi da sopportare e benefici attesi, con informazioni e dati comunicati trasparentemente. Ora il decreto-legge del 25 marzo ha previsto che il Comitato vada “sentito, di norma”, per le valutazioni di “adeguatezza e proporzionalità” dei decreti del presidente del Consiglio: si auspica che su tali valutazioni vi sia piena trasparenza, anche per motivare ai cittadini ciò che viene loro imposto.

 

In conclusione, i provvedimenti delle scorse settimane, per quanto giustificati dall’emergenza sanitaria, hanno creato lacerazioni nel diritto che rischiano di divenire più profonde, anche perché basate sul “consenso” della gente, sulla paura di chi sta accettando acriticamente un’ampia stretta a diritti e libertà in vista della tutela della salute. Al riguardo, si richiamano le parole del Garante Privacy riferite a chi dice “'io della libertà me ne frego'. Dobbiamo accettare regole che senza dubbio ci limitano in nome di un bene superiore senza però mai dimenticare che la forza del nostro Paese è sempre stato il modello democratico”.

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