Federico D’Incà, ministro del M5s per i Rapporti col Parlamento

Camere e telecamere

Valerio Valentini

“Salvini è un bel tipo, va in tv a dire che il Parlamento è chiuso. Ma se è apertissimo!”. Parla D’Incà

Roma. Col calendario aggiornato alla mano, quel calendario che è ormai uno dei suoi strumenti del mestiere, riepiloga il programma della settimana: “Domani si riuniscono le commissioni Bilancio di Camera e Senato per l’audizione del ministro Gualtieri. Mercoledì, in entrambe le Camere, sono previste riunioni di commissioni e un question time a Montecitorio. E poi, giovedì, l’informativa del premier Conte”. E insomma Federico D’Incà, ministro del M5s per i Rapporti col Parlamento, conferma che “no, non c’è nulla da aprire, perché Camera e Senato sono già aperti. Del resto, sono state le conferenze dei capigruppo della scorsa settimana a definire la tabella di marcia dei lavori parlamentari. Riunioni in cui c’erano degli esponenti di quegli stessi partiti che ora ci chiedono di aprire a oltranza, di lavorare senza sosta. Senza che sia ben chiaro cosa significhi, e senza che, peraltro, quelle richieste avanzate nelle interviste dei talk-show siano poi state formalizzate nelle sedi opportune”.

   

A questo gioco, ecco, Federico D’Incà non vuole starci. “Mi sembrano atteggiamenti francamente non condivisibili, quelli dei leader delle opposizione che nelle loro molte comparsate televisive, o attraverso le dirette sui social, invocano l’apertura di un Parlamento che, semplicemente, è già aperto”. Vi accusano anche di voler fermare le Camere per potere approvare il Mes alla chetichella. “Polemiche assurde, senza alcun fondamento. Il paese, in queste settimane drammatiche, ha bisogno di norme precise e di decisioni rapide”.

   

Il che, tuttavia, è proprio ciò che si rimprovera al governo. Il ricorso a continui dpcm, “questo acronimo di cui – riconosce il ministro – tanti nostri concittadini finora ignoravano perfino il significato”, e direttive ministeriali. Tutti strumenti che, in effetti, aggirano la discussione parlamentare, proprio mentre si limitano alcune importanti libertà dei cittadini. “Capisco le perplessità di alcuni, su questo tema, e comprendo anche che a molti nostri concittadini stiamo chiedendo dei sacrifici importanti. Ma non si può non considerare che siamo in una situazione d’emergenza, e che si ha spesso la necessità di agire con urgenza per rispondere a sviluppi nuovi o non del tutto prevedibili che questa epidemia ci pone davanti”. La Costituzione, per le urgenze legislative, prevede lo strumento del decreto legge. “Che è infatti il veicolo normativo che stiamo utilizzando per gli interventi più importanti, e anche per rendere più organiche le varie norme finora prodotte. Sarà appunto un decreto legge, il quinto sul Covid-19 in ordine di tempo, che verrà approvato entro il 30 aprile, e che assorbirà, nella forma di emendamenti, tre degli analoghi decreti già precedentemente varati. Dopodiché, chiariamo a tutti che anche quando si agisce d’urgenza attraverso lo strumento del dpcm, non lo si fa certo con atti d’imperio da parte del premier, ma sempre con un lavoro di coordinamento con le regioni, coi sindaci in prima linea nella lotta al coronavirus, coi prefetti. E con le parti sociali, ovviamente, con cui spesso ci si confronta anche duramente, ma sempre in modo costruttivo”.

  

Nell’ultimo caso, quello del decreto sulla chiusura di tutte le attività economiche non strategiche, è emersa una certa confusione, un’ansia comunicativa che non ha contribuito alla chiarezza. “E’ stata una scelta difficile. Ma se non ci fosse stato il messaggio di sabato sera da parte del premier, forse non si sarebbe riusciti a imprimere quell’accelerazione che poi ha permesso ai ministeri coinvolti di lavorare, per tutta la giornata di domenica, a definire nel dettaglio le varie filiere produttive, salvaguardando quelle strategiche nella loro integrità”.

  

Ed è strategico anche il Parlamento, in questo senso. “Certo. Per questo al governo, e alle presidenze delle Camere, spetta il compito di predisporre tutte le misure di sicurezza per preservare l’integrità di deputati e senatori e, di conseguenza, delle istituzioni che rappresentano”. Maria Stella Gelmini chiede di fare, a tal fine, tamponi a tappeto ai parlamentari. “Su questo, non posso che rimettermi alla decisione di presidenti e questori delle Camere. Da semplice deputato, osservo però che il tampone, oltre a fotografare lo stato di salute di una persona in un preciso istante, richiede anche un certo tempo per essere poi analizzato. E non so quanto siano compatibili col lavoro d’Aula, queste dinamiche”.

  

Ma allora non sarebbe più logico prendere esempio dal Parlamento europeo, che ha ammesso il voto online? “Credo senz’altro che possano esserci dei momenti di confronto informale, delle riunioni preparatorie, in via telematica. Ma le discussioni ufficiali e il voto richiedono anche una certa presenza fisica, necessaria a trovare anche mediazioni e compromessi. Per questo, fermo restando che saranno le giunte per il Regolamento delle Camere a decidere, resto convinto che il voto digitale non sia, al momento, la soluzione”.

  

E non vede, però, il rischio di alterazione degli equilibri tra i vari gruppi parlamentari, decimati dalle assenze di parlamentari costretti all’isolamento o alla quarantena in virtù di disposizioni governative? “Mi auguro, francamente, che per tutto il tempo dell’emergenza si mantenga la massima convergenza tra maggioranza e opposizione, condividendo i provvedimenti più urgenti. I tricolori esposti ai balconi, i medici impegnati nelle trincee degli ospedali, tutte le persone che continuano a lavorare in questi giorni difficili, c’impongo proprio questo: di essere, tutti insieme, semplicemente italiani. Le ipocrisie della politica, ora, non sono ammesse”.

Di più su questi argomenti: