Foto LaPresse

Il virus e la speranza

Governo e regioni si sono mossi ai limiti della Costituzione. Ma la democrazia esce rafforzata

Quali sono le contraddizioni e le lezioni di questa inedita situazione?

Questo tempo sospeso invita a fare una riflessione su presente e futuro. Metà Paese necessariamente fermo, l’altra metà al lavoro. Persone più solidali, attente, ordinate (le file ai negozi alimentari ricordano quelle di guerra e dopoguerra, con la tessera). Un largo consenso dinanzi a un pericolo noto, ma nello stesso tempo sconosciuto, di cui non si conosce neppure la durata. Preoccupazioni per la malattia, a cui si sono aggiunte quelle per le possibilità materiali di cura. Il timore non della sola morte, ma di quella morte, come di soldati su fronti lontani, che non muoiono soltanto, ma scompaiono, senza che familiari e conoscenti possano dare l’ultimo saluto. 

 

Il timore per il futuro (l’Africa) e per le reazioni di altri paesi (l’acquisto di armi negli Stati Uniti).

Tanti interrogativi. Ordiniamoli intorno a cinque parole: globalizzazione, Costituzione, democrazia, federalismo, futuro.

 

Cominciamo dalla globalizzazione.

Kristalina Georgieva, direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale, nel suo blog, ha dichiarato il 16 marzo scorso, che a mano a mano che il virus si diffonde, la necessità di un’azione globale di politiche di bilancio si fa sempre più forte. Qui sta il paradosso: un pericolo mondiale costringe gli Stati a esercitare verso l’esterno la propria sovranità, chiudendo le frontiere. Nello stesso tempo, quella sovranità non riesce a esercitarsi all’interno: California e Stato di New York, Baviera, Lombardia e Veneto vanno per la loro strada. Come ha osservato Cerasa su queste pagine il 19 marzo, ci chiudiamo in casa per un fatto globale, e sappiamo che la soluzione può essere solo globale. Yuval Noah Harari ha osservato che questa volta il confine più importante non è tra nazioni, ma tra genere umano e mondo del virus. Sarà il caso di ripensare concetti e impostazioni a proposito di sovranità e globalizzazione.

 

La Costituzione regge bene alla prova?

Difficile rispondere a questo interrogativo: la Costituzione pare sia stata dimenticata. Consente limiti alla libertà di circolazione e di riunione. Permette al governo di avocare poteri di regioni e comuni. Stabilisce come si può fare l’uno e l’altro. Il governo si è mosso rispetto alle libertà in altro modo (concentrando tutti i poteri nelle mani del capo del governo e sottraendone così gli atti al concorso di altri poteri, presidente della Repubblica, Parlamento, Corte costituzionale) e rispetto alle regioni ha rinunciato ad avocare a sé i poteri amministrativi, anzi cedendo anche parte dei poteri che spettano ad esso in materia di epidemie. Il Parlamento è costretto a lavorare a scartamento ridotto. Ordinanze locali hanno fatto sorgere discussioni e controversie giudiziarie sul “diritto alla passeggiata”. Sono state già affacciate perplessità sulla tracciabilità dei movimenti di persone contagiate, senza alcuna ponderazione del peso del diritto alla privacy rispetto al diritto alla salute.

 

La democrazia?

Ne esce rafforzata. “Uno vale uno”, si diceva due anni fa. Ora, pendiamo dalle labbra degli epidemiologi e dei virologi. E’ il trionfo della competenza. Eravamo asfissiati alle scaramucce di questa o quella fazione, da un continuo battibeccare, da un quotidiano dichiarare in funzione elettorale. Ora si ha un certo ritegno alle liti di cortile. Preoccupano invece le condizioni delle più antiche democrazie, quella britannica e quella americana, i cui leader hanno dato le prove peggiori in questo frangente. Basta aver ascoltato, per fare un paragone, il preciso, essenziale, completo discorso alla nazione fatto il 18 marzo dalla cancelliera tedesca. Rimane sullo sfondo l’interrogativo: non sono stati più bravi i cinesi? Non dovremmo imitarli?

 

Il federalismo.

Il presidente della regione Veneto ha dichiarato al Corriere della Sera del 17 marzo scorso: “Ogni sanità è un modello e una storia a sé. Un abito sartoriale per la propria comunità”. Noi che abbiamo disegnato l’istituto regionale nell’anno in cui il presidente Zaia nasceva abbiamo fatto l’errore di non renderci conto che un’organizzazione stellare rallenta necessariamente i flussi nei due sensi tra centro e periferia, perché la soluzione della maggior parte dei problemi della routine si trova in periferia e non c’è una strada sempre aperta tra i due poli, quando le questioni divengono nazionali e urgenti. C’è un problema generale di dislocazione dei poteri, che va ripensata alla luce dell’esperienza, per cui bisogna rispolverare le formule cooperative, i compiti comuni, in alcuni casi un riaccentramento, come dimostrato dal fatto che l’esecuzione degli interventi del governo centrale non è affidata alle regioni e ai comuni, ma ai prefetti. In casi come quelli che stiamo vivendo c’è bisogno di una rete, non di “shogun” locali.

 

Il futuro?

Il futuro pone il problema delle interdipendenze. L’emergenza sanitaria si è tirata dietro quella economica. Dobbiamo ora preoccuparci del pericolo che quella economica si tiri dietro quella sociale (debito pubblico più pesante, recessione, in un Paese abituato ad anteporre sempre i diritti ai doveri). Per questo, oggi, nel momento più difficile dal dopoguerra, c’è bisogno di una riflessione sul futuro. Le faccio solo un esempio. Da più parti, compreso dal Copasir, si è affacciata la preoccupazione per la proprietà delle imprese italiane. Dopo le cadute della Borsa, sono divenute più appetibili agli stranieri. Quindi, si è pensato subito a costruire una barriera protettiva ricorrendo al “golden power”. La Costituzione prevede che la Repubblica “favorisce l’accesso del risparmio popolare” al “diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. Non sarebbe questa la migliore barriera protettiva, e, nello stesso tempo, il modo migliore per coinvolgere quel popolo di cui tutti si riempiono a bocca, nelle sorti del proprio Paese? Nel 1948 avevano visto lontano.

 

Continua a esser ottimista?

Glielo dico con padre Dante: “Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce”.

Di più su questi argomenti: