Medici nei pressi dell'ospedale da campo realizzato dalla Ong americana Samaritans Purse all’ospedale di Cremona (foto LaPresse)

Come sarà il futuro delle Sanità? Le scelte che dovremo fare in fretta

Maurizio Crippa

Più letti in terapia intensiva? No, o non solo. Servono big data condivisi, telemedicina. Di certo più spesa. E capitale umano

Milano. No, non eravamo preparati. Ospedali, medici, Sistema sanitario nazionale e Sistema sanitario regionale. Sì, troppi operatori contagiati, troppi pazienti zero sfuggiti, troppe disparità nella logica (infettante) delle ospedalizzazioni. Sì, una catena di comando governo-regioni (ministero della Salute assente ingiustificato) lasca, contraddittoria. Ma chi volesse polemizzare sugli errori degli altri, si laurei in virologia. Chi sul Sistema sanitario nazionale, organizzi una riforma costituzionale. Ma dopo. Per ora c’è una fotografia da fare di quanto sta avvenendo, e una serie di domande da iniziare a porsi, per tempo, su come dovrà cambiare (in tutto l’occidente, si può ipotizzare) il sistema delle sanità pubbliche e della prevenzione. L’Italia è un buon caso clinico. Perché la regione italiana più colpita, la Lombardia, è quella, assieme all’Emilia-Romagna, con il migliore sistema sanitario. Che ha cigolato, è stato scosso, ma non è crollato. E, nel dramma o nelle cose buone, ha evidenziato una impreparazione che è di tutti.

  

 

Per non parlare solo di “eroi” o di errori, bisogna partire da qualche punto fermo positivo. Il Sistema sanitario nazionale – che nella sua impostazione universalistica esiste soltanto dal 1978, con la riforma che superò l’impostazione sostanzialmente mutualistica precedente – è fra i migliori per performance al mondo (quarto posto mondiale secondo Bloomberg 2018, nono secondo Lancet 2019). Un sistema, nelle sue note disparità, efficiente. Soprattutto se messo in relazione con la spesa (bassa) dello stato per finanziarlo: il 6,8 per cento del Pil contro il 9,9 per cento della media europea, che ripartito in spesa pro capite fa 3.300 dollari a cittadino, contro i 3.800 della Gran Bretagna, i 5.000 della Germania e gli addirittura 10.000 degli Stati Uniti, del cui sistema (disastroso per la salute dei cittadini) non mette conto parlare. La riforma del 1993 (governo Ciampi) e poi quella del 1999 (riforma Bindi) pur con altalene di contraddizioni hanno di fatto disegnato una Sanità su base regionale. Poi con la riforma costituzionale del Titolo V le prerogative delle regioni sono aumentate ulteriormente. Poi, è arrivato il virus. Molti medici e analisti dei sistemi di Sanità hanno giustamente sottolineato che lo spezzettamento su base regionale è un limite grave nei casi di emergenze nazionali, e che una catena di comando centralizzata per la gestione delle epidemie sarà in futuro necessaria, piaccia o meno alle regioni. Per esempio, viene notato, è assurdo che le direttive centrali debbano poi interfacciarsi con competenze e linee guida diverse tra regioni contigue nella pandemia, come Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna. Ma questo evidentemente sta in capo al decisore politico. I poteri del ministero e del Consiglio superiore della Sanità in questi casi esistono già, ma non hanno sempre funzionato. Si può però dire che la debolezza di un sistema andato, quantomeno, sotto stress non sta nella sua regionalizzazione. La debolezza è che non eravamo pronti. E appena poco più pronti stanno dimostrando di essere altri paesi, ma non tutti: il ripensamento sarà globale, con un occhio di riguardo a quanto hanno fatto i paesi asiatici. La debolezza che non avevamo programmato in modo giusto.

 

Ci sono perciò le domande tecniche, sul campo, più che quelle politiche. Più utili per cominciare a capire come sarà il futuro e come si dovrà modificare la dislocazione della spesa. E ovviamente aumentarla. Perché saranno necessarie Sanità all’altezza delle (future) pandemie, questo è chiaro a tutti. Esattamente come è chiaro nel mondo dell’economia che dovranno cambiare molte cose. Bisogna partire da una presa d’atto di nuova responsabilità collettiva di cui la crisi del Covid-19 può essere occasione. Ma servono modelli. Partendo magari interrogandosi dalla Lombardia, dalle scelte che ha compiuto. Abbiamo scoperto che il virus colpisce di più le persone anziane. La recente riforma della Sanità voluta da Roberto Maroni nel 2015 ha tra i suoi punti qualificanti, ad esempio, il concetto della presa in carico duratura dei pazienti cronici effettuata non soltanto attraverso strutture di ricovero (non sempre utili) ma attraverso nuovi servizi territoriali, poliambulatoriali, una rinnovata rete di medicina di base e servizi di informatizzazione e condivisione dei dati clinici dei pazienti. Perché in Lombardia ci sono 3,5 milioni di cronici, e la popolazione invecchia ma vive di più. Perciò servizio più adeguato e “razionalizzazione” della spesa. Il tutto in un quadro in cui a livello nazionale, di razionalizzazione in razionalizzazione, i posti letto sono calati nell’ultimo decennio in modo costante, arrivando a circa tre ogni 1.000 abitanti, contro la media europea di quasi cinque. E ora che ci siamo accorti che i posti in ospedale servono, e ancor più servono quelli in terapia intensiva, e ne abbiamo meno degli altri? Bisognerà riformare da capo? “No, non è questa la prospettiva giusta per inquadrare le cose – spiega Rosanna Tarricone, docente alla Sda Bocconi e specialista di modelli gestionali dei sistemi di Sanità – la cronicità resterà uno dei grandi problemi. E anzi un tipo di approccio basato anche sulla telemedicina sarà importante anche per le epidemie: basti pensare all’aiuto che darebbe oggi poter curare gli anziani a casa tramite uno smartphone e una app. Quel che deve cambiare è la capacità di programmare. L’Italia e l’Europa non hanno mai avuto epidemie così da cento anni, per questo sono rimaste ferme, a differenza dell’Asia. Il problema è cambiare i modelli”. Da dove partire? Si parla ad esempio dei tracciamenti digitali della popolazione come in Corea del sud. Dei tamponi utilizzati a tappeto. Sono modelli molto avanzati rispetto al nostro, dobbiamo osservarli con attenzione. “Di certo la tecnologia mobile sarà importante, e non solo per la mappatura ma anche per la cura a casa. Servirà un sistema di telemedicina, che c’è già – ad esempio la provincia di Trento ha un sistema di ‘Mobile Health’ avanzato – ma ancora poco utilizzato, e che può essere decisivo anche per le epidemie”. In secondo luogo, rivedere la condivisione dei dati: “Uno dei gravi problemi che abbiamo avuto è che gli ospedali tra loro, e tra pubblico e privato ancora peggio, non hanno sistemi di dati che dialogano. Per sapere dove c’è disponibile un letto si deve telefonare. Conoscere la cartella clinica di un paziente è spesso difficile. Tempo perduto pagato in vite, in efficienza, in possibilità di contagiarsi”. Va dunque messa a regime la rete dei big data sanitari, e deve avere una regia unica. Poi? “Cambiare mentalità. Dobbiamo passare a ragionare di ‘one health’, la condivisione di informazioni e decisioni tra tutti gli operatori: non sono la salute umana, ma la veterinaria o i dati sull’inquinamento. In una pandemia, o per prevenirla, sarà importante avere più informazioni possibili a disposizione. E soprattutto iniziare a pensare insieme. Certe nazioni lo sanno fare, noi meno”. Ma si tratterà anche di spendere soldi. “In verità, queste razionalizzazioni fanno risparmiare. Ma è indubbio che la ‘dieta’ che la Sanità ha subito negli anni ha creato problemi, soprattutto nel personale”.

  

 

A proposito di personale, dal mondo dei medici l’allarme è costante da anni. E oggi, osserva più di uno di loro, si comprende che i tagli non hanno pesato soltanto sulle strutture (razionalizzate tra grandi ospedali, centri di degenza e presidi territoriali). Il problema del futuro anti epidemico non sarà avere uno Spallanzani al posto di ogni ospedale di Codogno o di Alzano. Il punto, ci si è accorti, è che ci sono troppo pochi medici di base, pochi di medicina generale, troppo pochi infermieri. Il problema delle specializzazioni, ad esempio: i medici laureati bloccati in attesa di azzeccare un posto. Poi c’è la prospettiva di un potenziamento che andrà fatto sui laboratori di microbiologia di alto livello. All’inizio della crisi, i tamponi in Lombardia potevano essere analizzati solo al San Matteo di Pavia e al Sacco di Milano. Poi se ne sono attrezzati altri. In futuro non è necessario che ce ne sia uno per ogni ospedale, perché costano e perché sarebbero sotto utilizzati, ma che ce ne siano 4/5 con compiti di hub regionale o interregionale. Spostamenti che richiedono investimenti e una visione strategico programmatica. Siamo all’anno zero? “Non proprio, ma indietro sì – riflette la prof. Tarricone – A livello di ministero, la Direzione generale della programmazione sanitaria sta lavorando a un progetto che si chiama ‘Sanità2.0’ che riguarda appunto tutti questi aspetti, e ovviamente la gestione epidemiologica”.

 

Abbiamo imparato che gli stili di vita e anche sanitari in futuro saranno diversi. Che la possibilità di “lockdown” locali o parziali diventeranno il nostro vocabolario, che essere testati e monitorati diventerà un fattore di sicurezza e prevenzione. In generale, occorrerà spendere di più, almeno l’Italia. Un po’ rassicura, un po’ inquieta. Ma la domanda più popolare che tutti si fanno è: come mai abbiamo così pochi posti letto in terapia intensiva e altri paesi sì? In Italia, a inizio crisi, erano poco più di 5.000, pari o in alcuni casi inferiore alla media europea. Oggi sono di più, ma non è detto che debbano aumentare. Questi reparti sono estremamente costosi (fatto cento il costo di gestione di un ospedale, un reparto di terapia intensiva incide il 20, 30 per cento) e non ha senso averli vuoti. Ha molto più senso avere database e risorse sufficienti per svuotare altri reparti in tempo breve e metterli in sicurezza. Un altro aspetto è la scarsità dei reparti di terapia sub-intensiva (modello post operatorio), che avrebbe permesso di curare i pazienti medio gravi. Ma anche qui: sono un costo, e spesso anche dove esistono sono sotto utilizzati per mancanza di personale medico e infermieristico. Che, parlando con chi lavora negli ospedali e negli uffici di programmazione, è il vero investimento che dovrà essere fatto. La medicina digitale funziona solo investendo sul capitale umano.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"