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Ospedali, modelli, scuole, lavoro. Isolare le ipocrisie sul virus

Roberto Volpi

Perché i medici sono così contagiati? Perché non isoliamo gli anziani? Cosa manca per vincere il Covid-19. Controindagine

Quando fu il caso dell’influenza suina, nel 2009, dovuta a un nuovo virus influenzale di tipo A, il virus A/H1N1, contrassegnato dalla lettera A di malaugurio – visto che tutte le più devastanti pandemie influenzali del secolo trascorso, dalla Spagnola all’Asiatica alla Hong Kong furono provocate da virus di tipo A – nessuno pensò di contrastarlo cercando di contenerlo entro un’area delimitata. Veniva dal Messico e in Messico quella possibilità non passò neppure per l’anticamera del cervello delle autorità politico-sanitarie. E questo nonostante che l’Oms, spaventata dalla sigla infausta del virus, avesse dichiarato lo stato pre-pandemico (livello di pericolosità 5 su 6) già cinque giorni dopo l’inizio dell’epidemia. Il virus provocò tra 100 e 400 mila morti, difficile dire, e una autentica psicosi di massa in molti paesi, anche in quel caso soprattutto europei, tra i quali l’Italia. Eppure, si ripete, a nessuno saltò in testa di contenerlo costringendo la popolazione al minimo possibile di movimenti e contatti interpersonali. Ora, di fronte a questo precedente, è impossibile non interrogarsi sul perché di una strategia tanto aggressiva opposta contro il nuovo coronavirus cinese quando, cito dall’Istituto Superiore di Sanità, “i coronavirus rappresentano un’ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie da lievi a moderate, dal comune raffreddore a sindromi respiratorie come la Mers (sindrome respiratoria mediorientale) e la Sars (sindrome respiratoria acuta grave)”.

 

Oggi diciamo che i cinesi sono stati bravi a stroncare con poco più di 80 mila contagiati e di 3 mila morti l’epidemia di coronavirus. Ma nessuno può sapere quali effetti avrebbe avuto una diversa strategia. La Cina ha dunque imposto tanto il virus che la strategia di contenimento: questa è la realtà. Tracciata vittoriosamente – o, almeno così sembra, ma è presto per dirlo – la strada, nessuno se l’è sentita di imboccarne una diversa. Così è stato per l’Italia, in un crescendo di restrizioni e divieti volto ad agguantare il modello cinese al punto che il governatore della Lombardia Attilio Fontana il 18 marzo, al termine di giorni drammatici, ha tenuto una conferenza stampa assieme al vice presidente della Croce Rossa cinese il quale ha detto di aver visto troppa gente sulle strade, troppa sui trasporti pubblici, poche persone con la mascherina. La ricetta cinese, appunto. Eppure oggi i dubbi sull’adeguatezza e l’efficacia di quella strategia in un paese come l’Italia sono autentici e fondati. Vediamo i principali.

 

1.

Tutti parlano dell’età elevata dei morti, ma i morti da coronavirus hanno un’età media inferiore di ben sei anni a quella dei morti provocati dalla comune influenza (79 anni contro 85). A dover stupire è piuttosto l’età, altissima, dei contagiati da coronavirus: 63 anni, di oltre 20 anni superiore all’età media dei contagiati nelle comuni influenze, con la fascia di popolazione di 0-19 anni che rappresenta poco più dell’1 per cento dei contagiati, mentre nelle influenze stagionali rappresenta non meno del 30 e fino al 40 per cento dei contagiati. Il coronavirus contagia a età avanzate, mentre risparmia pressoché al gran completo le età infantili e giovanili. E ciò avrebbe dovuto rappresentare la bussola della strategia di contenimento dell’epidemia, a maggior ragione in un paese, il nostro, che è forse quello con la più alta proporzione al mondo di persone di oltre 75 anni. Isolare e difendere nei modi più opportuni quella fascia di popolazione avrebbe dovuto costituire il centro portante della strategia.

 

Riesce in questa operazione il “tutti in casa” del governo? A due settimane dalla chiusura delle scuole e dalla istituzione dell’Italia come un’unica zona rossa la risposta è sotto gli occhi di tutti: no. E per capirlo basti questo dato: i morti da coronavirus accusano una media di 2,7 patologie significative. In una epidemia dove sono moltissimi i positivi non sintomatici si sono rinchiusi 24 ore su 24 questi positivi asintomatici coi moltissimi anziani di 75 e più anni gravati da pesanti malattie, diventati così un più facile bersaglio per il coronavirus.

  

2.

Detto che in Lombardia, regione dove si concentra il 64 per cento dei morti da coronavirus, il tasso di mortalità è di oltre 11 morti su cento contagiati – un tasso che non ha un termine di paragone in nessuna parte del mondo – si deve comunque sottolineare che anche il resto d’Italia con 6 morti ogni 100 contagiati si colloca su livelli decisamente alti che quasi doppiano il tasso di letalità cinese. Siamo dunque di fronte a un’alta mortalità dell’Italia e a una altissima della Lombardia. Ora, dei contagiati dal coronavirus il 50 per cento, uno su due, è ricoverato in ospedale. Un tasso di spedalizzazione abnorme. Che sia abnorme lo dice il Veneto, dove viene ricoverato il 29 per cento dei contagiati contro il 57 per cento della Lombardia, la metà. Siccome l’età media dei contagiati è la stessa si deduce che sono i due sistemi sanitari regionali a essere improntati a una diversa filosofia. Ed è il sistema efficientistico lombardo a dimostrarsi nella fattispecie meno efficace, visto che la mortalità da coronavirus in Veneto è un terzo di quella lombarda, e più vulnerabile. Si veda per tutti, a proposito di vulnerabilità, questo dato: dei 3.654 operatori sanitari che risultavano positivi al coronavirus alla data del 19 marzo 2.808, il 77 per cento erano operatori che prestavano la loro opera in Lombardia. Riassumendo, la Lombardia rappresenta il 47 per cento di tutti i contagiati in Italia, ma il 64 per cento dei morti da coronavirus e addirittura il 77 per cento degli operatori sanitari contagiati.

 

Il percorso causale è piuttosto evidente: gli ospedali sovraffollati (luoghi chiusi come sono diventate le case degli italiani) sono a loro volta ambiti ad alto rischio contagio, si contagia il personale sanitario, si contagiano gli altri ammalati, si rischia di compromettere il decorso dei ricoverati. Del resto, è l’ISS a sentenziare: “È evidente l’elevato potenziale di trasmissione in ambito assistenziale di questo patogeno”. Ma se è evidente, non si dovrebbe provare a ospedalizzare il meno possibile, ricoverando solo i casi che hanno un assoluto, cogente, ineludibile bisogno di ricovero? E a isolare i positivi nel proprio domicilio, peraltro facendo loro un immenso, e positivo sul piano degli esiti, favore a livello psicologico? I margini per fare così ci sono se in Veneto, a parità di caratteristiche fondamentali dei contagiati, si ospedalizza la metà che in Lombardia.

 

L’eccesso di ospedalizzazione è forse il fattore che più incide sull’alta mortalità, in Lombardia e in tutte le realtà dove si crea un sovraffollamento e un superlavoro che fa da brodo di coltura del coronavirus e del contagio. C’è un’alta e statisticamente significativa correlazione positiva (dell’ordine di +0,6 sul massimo di +1) tra i tassi regionali di letalità da coronavirus e la percentuale che gli operatori sanitari contagiati delle regioni rappresentano del totale dei contagiati di quelle regioni. In più crude parole: a più alti livelli di personale sanitario infettato sono associati più alti livelli di letalità del virus. E’ una correlazione che suona come un monito e come un’indicazione.

3.

Abbiamo chiuso le scuole quando bambini e adolescenti non vengono contagiati, rinserrato in casa gli anziani con gravi problematiche esponendoli al contagio dei famigliari positivi asintomatici – al punto che l’assessore al welfare della Lombardia deve ora raccomandarsi di rispettare le distanze canoniche anche nelle proprie abitazioni – ricoverato in misura eccessiva in presenza di un virus dall’elevato potenziale di trasmissione proprio in ambiti assistenziali. C’è ancora qualcosa che si può sbagliare: non soffermarsi abbastanza a considerare il numero insoddisfacente dei guariti. Chi se ne importa, viene da dire, dei contagiati se guariscono, come succede nelle influenze stagionali quando bambini e ragazzi si infettano a centinaia di migliaia e guariscono tutti implacabilmente in cinque giorni senza che si verifichi tra di loro un solo morto? Il fatto è che in Italia dal coronavirus si guarisce troppo poco, ad oggi è guarito soltanto il 12 per cento dei contagiati mentre il rapporto tra guariti e morti è di appena 12 guariti ogni 10 morti, laddove in Cina a fine epidemia era di 25 guariti per 1 morto. L’impegno fino al sacrificio del personale sanitario, reparti di terapia intensiva tirati su a tempi di record, sempre nuove energie umane e apparecchiature gettate nella mischia. Tutto vero. Ma che al 22 marzo di 54 mila contagiati dall’inizio dell’epidemia 5 mila siano i morti e solo 6 mila i guariti è il resoconto di una guerra che non è possibile vincere senza ristabilire l’umanità della malattia e del suo decorso. Ci deve essere un altro modo. E lo si deve cercare.

  

4.

Questo è un virus che, diversamente dai virus ai quali siamo abituati, non colpisce i sistemi immunitari ancora immaturi (e infatti non ci sono praticamente bambini e adolescenti tra i contagiati) ma i sistemi immunitari deboli o compromessi (e infatti 4 contagiati su 10 hanno più di 70 anni). Virus così possono essere affrontati con strategie che non sono quella che abbiano messo in campo, più mirate e agili, meno sconvolgenti della vita delle persone e delle economie dei paesi. Ma questo è un discorso che ci sarà tempo e modo di fare. Vinceremo, comunque. Ci vorranno alcuni mesi e qualche altro migliaio di morti ma il risultato è scontato. Gli scenari apocalittici in popolazioni della nostra resistenza organica sono bubbole buone per far vendere libri e biglietti di film. I virus, peraltro, finiscono anche per proprio conto col perdere vigore (e lo fanno proprio infettando). Ma se vinceremo con questa strategia così ambigua e sforzata presentata come salvifica, se non addirittura trionfante, beh, Dio ce ne scampi. Il perché è presto detto, perché al prossimo nuovo virus niente potrebbe più trattenerci dal ripigliare laggiù dove ci siamo fermati. Dalla strategia salvifica e trionfante. E allora di nuovo zone rosse e decreti e tutti in casa e attività e produzioni e vite bloccate. In attesa che passi la nuova tempesta. Il ritorno, insomma. L’eterno ritorno di antropologica memoria. Una prospettiva da brividi.