Il senso di curare
Fine vita: l'alternativa non è mai tra il “morire prima” o il morire malamente dopo
Il medico deve capire quando ci si deve fermare e quando invece bisogna andare avanti: le cure palliative dovrebbero far lievitare tutta la medicina verso qualcosa di più umano e rispettoso
Non è detto che morire prima sia peggio che morire poi – campeggia sulla diapositiva accanto al volto di un monaco buddista. E questa sarebbe, secondo il relatore, una grande verità, di quelle che potrebbero influenzare il dibattito legislativo sulla fine della vita nel nostro paese. Resto perplesso: è molto tardi, ho una giornata di lavori congressuali alle spalle. La platea è composta da giovani internisti, spesso eroici specializzandi mal pagati che, ora per compiacere i relatori che sono loro direttori, ora per pura e ancora fresca passione professionale, hanno sfidato la lunghezza del giorno per fermarsi ad ascoltare. Presentatosi in abiti dimessi, il palliativista sembra quasi chiedere scusa per essere li, pare raccogliere le sue ultime energie e, con ampie volute nel cielo del suo pensiero, alla fine piomba dritto sulla preda. “Chi siamo noi per infliggere ai malati tutte queste sofferenze? – afferma mostrando un grafico dal quale appare evidente, come dice lui, che i pazienti affetti da una malattia grave e alla fine della vita “non fanno altro che trascinarsi da un ricovero ospedaliero all’altro”.
La medicina assume un volto ambiguo, mascherato, doppio. Ascolto ancora: “Non sarà mica il caso, arrivati a questo punto, di correggere un deficit di sodio o di fare un antibiotico? – afferma con aria sconfitta – non si farebbe altro che prolungare una sofferenza”. Quando Sandro Spinsanti o Oscar Corli, tra i pionieri della bioetica il primo e della medicina palliativa il secondo, dicevano che le cure palliative avrebbero dovuto avere, nella medicina, il ruolo del lievito nella pasta facendola lievitare tutta verso qualcosa di più umano e rispettoso, avevano certamente un’idea diversa. Il progetto non era infatti quello di una “medicina per la morte”, di una medicina che rinuncia a tutto e in ogni caso. L’idea era quella di una medicina come “troisième voie”, come insegnava Charles-Henry Rapin: una medicina che sapesse “accettare la morte” non rinunciando a nulla che potesse far star meglio il malato, evitando certo le rianimazioni in fine vita ma non negandogli antibiotici o trasfusioni se queste servissero ad allieviarne i sintomi.
Luigi è vecchio geometra di Torino, novantacinque anni. Lo seguo da circa un anno, ha una leucemia, vive con una badante e con il cagnolino di quest’ultima. Per lui abbiamo lottato contro gli eventi per tenerlo in vita senza sintomi: aveva avuto una polmonite che abbiamo trattato con antibiotici, lo trasfondiamo una volta ogni tre o quattro settimane. Luigi se è ancora vivo lo deve all’amore che lo circonda da parte dei suoi cari ma anche alle trasfusioni e alla terapia antibiotica che abbiamo fatto. Mentre il relatore parla di una vita triste, una specie di parcheggio in attesa della morte, Luigi è vivo nel mio pensiero e mi parla di una pienezza che non ha nulla della triste attesa, mi parla di vita vera. La terza via: il palliativista è un vero medico, cerca di capire quando ci si deve fermare e quando invece bisogna andare avanti. Curare una persona significa avere chiaro che l’alternativa non è tra il “morire prima” o il morire malamente dopo, come invece il relatore continua a voler far credere, coperti di orrende piaghe o preda di infezioni.
Se così fosse non si spiegherebbe il dato che le richieste eutanasiche, nei paesi in cui la pratica è permessa, provengano da molti reparti ma quasi mai da quelli di medicina palliativa. Di fronte ai giovani internisti si sarebbe dovuto spiegare bene che cosa fa la differenza: l’essere considerati un peso da eliminare perché “morire prima è meglio” o l’essere guardati come vivi fino alla fine è ciò che spinge a chiedere di morire in certe situazioni o a restare in vita in altre. L’accento deve cadere sulla cura che offriamo, non sulla “scelta” che mettiamo sulle spalle dei malati dopo averli cinicamente fatti sentire liberi per compiere un progetto di morte. Da palliativista ho ritenuto di partecipare a un congresso di medicina interna per imparare le ultime novità per i malati, consapevole che magari non farò in tempo a usarle per tutti ma altrettanto consapevole che migliorerò nel distillare il meglio della scienza medica a loro vantaggio. Le cure palliative nella loro formulazione originaria non accettano eutanasia e suicidio assistito. Sanno con saggezza imboccare una “terza via”, mai rinunciando alla cura, attente ai più piccoli dettagli, con una finezza e un’attenzione che i malati percepiscono subito, con una vivacità e un dinamismo che non ha nulla della resa pur accettando la fine inevitabile.
Esco pensando ai giovani medici, ho quasi un nodo in gola: tutto mi sembra sfumare nella falsità di un’offerta irricevibile e tragica, lontana dalla realtà quotidiana eppure sempre più presentata come via a senso unico. E’ ora di risalire la corrente: quando pensavamo di essere molto avanti c’è ancora molta strada da fare.