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Per la Cina gli aiuti umanitari servono ad aprire canali diplomatici

Giulia Pompili

“Nella mask diplomacy si percepisce una volontà politica molto forte per tentare di cambiare la narrazione dell’emergenza attraverso la diplomazia pubblica”, spiega Marina Rudyak. La reciprocità che manca con l’Italia

Roma. Da quando il presidente cinese Xi Jinping ha visitato Wuhan, l’epicentro dell’epidemia, il 10 marzo scorso, qualcosa è cambiato nella narrativa cinese sul virus. Il paese dove tutto è cominciato, per contenere l’epidemia di nuovo coronavirus ha messo in quarantena quasi sessanta milioni di persone, in un esperimento sociale mai tentato e i cui effetti reali sulla popolazione conosceremo forse tra molto tempo. Un “sacrificio necessario”, lo hanno definito gli organi di propaganda, perché “l’epidemia è un diavolo. E non possiamo lasciare che il diavolo si nasconda”, ha detto Xi Jinping il 28 gennaio. Il cigno nero, l’evento inaspettato e possibilmente destabilizzante per la leadership, in realtà ha dato più potere al Partito comunista cinese. Il presidente Xi, l’uomo che ha dato concretezza al sogno cinese con, tra gli altri, il mastodontico progetto della Via della Seta, ora vuole trasformarsi nell’eroe che ha sconfitto il diavolo, e che può insegnare agli altri come fare. Da un lato c’è la propaganda interna: le responsabilità di quello che non ha funzionato Pechino sin dall’inizio sta cercando di farle cadere sui responsabili e le autorità locali. Dall’altro lato c’è la propaganda esterna: come può una potenza come la Cina, che vuole trasformarsi in una potenza responsabile e influente al pari dell’America, farsi macchiare la reputazione da una pandemia per cui tutti la ritengono responsabile? A Pechino hanno un piano: si chiama diplomazia delle mascherine.

 

Perché anche durante le emergenze, la politica fa il suo mestiere, e sarebbe ingenuo non pensarlo. Marina Rudyak, che all’Istituto di Studi cinesi dell’Università di Heidelberg studia gli aiuti cinesi, spiega al Foglio che è importante interpretare in modo corretto il lato umanitario e quello politico. Da una parte gli aiuti umanitari cinesi, che hanno una lunga tradizione, “sono gli unici a essere svincolati dalla One China Policy: l’abbiamo visto per esempio per il terremoto ad Haiti, che riconosceva Taiwan ma nonostante questo ha ricevuto massicci aiuti dalla Cina”. Per Pechino quel tipo di aiuto serve a stabilire delle relazioni con i paesi con i quali, ufficialmente, non ha relazioni diplomatiche. “D’altra parte nel caso della mask diplomacy si percepisce una volontà politica molto forte”, dice Rudyak, “per tentare di cambiare la narrazione dell’emergenza attraverso la diplomazia pubblica”. “All’inizio c’è stato un tentativo di insabbiare la reale situazione e di silenziare chi voleva dare l’allarme. Ora la politica centrale sta cercando di dare la colpa a quella locale”. E in questa dinamica interna le donazioni sono importanti – in un momento in cui legittimamente tutti i paesi pensano a salvare sé stessi – “perché sono un investimento nelle relazioni politiche. In mandarino la parola ‘aiuti’, citata per esempio dai media ufficiali cinesi nel caso dell’Italia, può voler dire sia ‘donazione’ sia ‘vendita’, cioè la messa a disposizione di cose che l’altro non ha. Come se volesse dire che la Cina stia aiutando ricominciando a esportare”. Eppure molte donazioni, organizzate con una velocità sorprendente, effettivamente ci sono state, e sono state legittimamente celebrate dall’opinione pubblica e da gran parte della politica italiana: “Se pensiamo alla donazione della Croce rossa cinese, e all’invio dei medici dello Sichuan, ecco lì c’è una componente di relazioni, e cioè mista: sia umanitaria sia politica”. Perché la Croce rossa italiana aiutò la provincia del Sichuan dopo il terremoto del 2008, e quindi ora quell’area e quell’istituzione sta tornando il favore. Ma per i politici dovrebbe essere d’obbligo capire il contesto. “Credo che quello che stia facendo la Cina sia corretto dal punto di vista degli aiuti e delle esportazioni”, dice Rudyak, ma il messaggio corretto da parte delle istituzioni europee dovrebbe essere appunto quello della reciprocità.

 

Il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, la scorsa settimana ha annunciato che la Cina avrebbe mandato un milione di mascherine per la Francia in donazione, ma poi ha aggiunto che la donazione seguiva quella fatta dalla Francia di diciassette tonnellate di materiale durante l’emergenza cinese di un paio di mesi fa. Lo stesso aveva fatto la Spagna, che ora, a emergenza coronavirus conclamata, ha annunciato l’acquisto dalla Cina di materiale medicale per 432 milioni di euro. La Spagna ha ricevuto anche donazioni, ma anche ha reso molto chiaro l’ingente investimento. A gennaio l’Italia non era stata altrettanto generosa con la Cina, anzi, nessuna donazione italiana aveva fatto titolo né sui giornali italiani né su quelli cinesi, eppure ora la Cina si sta spendendo molto per l’emergenza italiana. Ed è lo stesso un problema politico, perché se la Cina dona troppo, la bilancia non è più equilibrata, e l’Italia rischia di essere in debito. Se il messaggio deve essere quello della reciprocità, l’Italia è l’unico paese europeo a non averlo mandato.

 

Tutto questo mentre la Cnn riporta che sui social network cinesi già da febbraio la Croce rossa cinese è sotto osservazione: sui social network cinesi monta la paura che tutte queste donazioni all’estero, alla fine, possano compromettere il sistema di sicurezza sanitaria cinese.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.