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“Il virus ci ricorda che siamo fallibili, ma nessuno di noi vuole arretrare”

Piero Vietti

Parla il dottor Marco Ulla, dalla terapia intensiva dell’ospedale San Luigi di Orbassano

Roma. “Qualche giorno fa abbiamo dovuto addormentare e intubare un paziente ricoverato nel reparto Covid del nostro ospedale. Non riusciva più a respirare autonomamente ma era ancora cosciente. Quando ha capito che cosa stava succedendo, e io gli ho spiegato cosa stavo per fare, mi ha chiesto: ‘Per quanto tempo, dottore?’. ‘Almeno due settimane’. ‘Ma poi mi sveglio?’. Io gli ho risposto l’unica cosa che potevo rispondere: ‘Sì, certo’. Allora lui ha chiesto di scrivere un messaggio alla sua famiglia: ‘Non sta andando bene, mi devono addormentare. Ce la farò anche questa volta, vi voglio bene’. Erano le 3 del mattino”. Marco Ulla è anestesista rianimatore in servizio presso l’ospedale San Luigi di Orbassano, vicino a Torino. Era tornato da poco in Italia dopo una fellowship in terapia intensiva all’Imperial College di Londra quando è scoppiata l’emergenza del coronavirus. Da due settimane lavora ogni giorno per strappare al virus più persone possibili. “Per ora si regge – dice, raggiunto al telefono dal Foglio dopo l’ennesimo turno di notte – Dall’inizio dell’emergenza siamo sempre riusciti ad aggiungere nuovi posti in terapia intensiva e a tirane fuori qualcuno”. Certo, se l’afflusso di pazienti gravi dovesse aumentare ancora a lungo, se il Piemonte venisse investito dai numeri che hanno messo a dura prova la Lombardia, sarà dura. “Le attività di routine sono sospese, le emergenze garantite, il massimo sforzo ora è per combattere questo bastardo”.

 

Lo chiama così, il bastardo, questo virus che sta sconvolgendo il mondo da settimane. “Non ho mai odiato una malattia come invece odio questo coronavirus – dice Ulla, 36 anni ma già un’abbondante esperienza alle spalle, in Italia e all’estero – I medici di solito considerano una malattia molto ‘altro da sé’, questa volta invece viviamo tutti con la sensazione che possa attaccarci. Vedo come sconvolge la vita dei miei pazienti, cerco di trasformare questa avversione in grinta, però”. Non c’è un filo di retorica nei racconti di chi, medici, infermieri, personale ospedaliero, in queste settimane sta provando a contenere l’ondata di contagi: “Vedo un’abnegazione pazzesca dei miei colleghi, di tutte le figure professionali: dal primario che non stacca da due settimane fino a chi fa le pulizie, non ho mai visto nessuno tirarsi indietro di fronte a una richiesta, c’è gente che resta anche quando il proprio turno è finito”. Parla di “bella umanità” Ulla, ma anche di tanta frustrazione: “Sono più di venti giorni che abbiamo questo virus davanti, il nostro approccio è cambiato, evolve ogni giorno. All’inizio pensavamo fosse un quadro sovrapponibile a quello portato da malattie per cui esiste un protocollo standard. Non è così. Siamo preoccupati: non conosciamo fino in fondo il nemico. Ci rassicura vedere come sono andate le cose in Cina, anche se da noi sembra stiano andando diversamente. Non è chiaro chi hai di fronte, la cosa ti spaventa: basterà la terapia di supporto che facciamo? Farmaci specifici non ci sono, al momento chi ne esce, ne esce da solo”. Siamo un po’ tutti insicuri, anche gli esperti sembrano contraddirsi. “Siamo stati abituati a riporre fiducia piena nella medicina, ora non sappiamo bene come fare. Il coronavirus ci sta insegnando che siamo fallibili. E’ come se si fosse tornati agli anni pionieristici, si procede per tentativi. Pensavamo di conoscere tutto o molto, non è così. E’ frustrante ma stimolante: ogni passo avanti consola. E poi ci sono i ricercatori: tra loro vedo la stessa abnegazione che c’è negli ospedali, siamo fiduciosi”.

 

Uno dei cambiamenti più grandi che il virus ha portato è nel rapporto tra medici e pazienti. “Prima in qualche modo delegavi la cura della solitudine dell’ammalato alla sua famiglia, ora devi occupartene tu. E poi non c’è contatto, cerchiamo di toccarli il meno possibile. Io posso visitare molto poco un ammalato di Covid-19, banalmente non si può usare lo stetoscopio”. I parenti non possono fare visite: “Interagiamo con loro telefonicamente, li sentiamo una volta al giorno: è un appuntamento che aspettano, ci chiedono tutto, si aggrappano a ogni dettaglio per sperare. Ci chiedono di salutare i loro cari, di fare loro una carezza”.

 

Si fanno promesse che potrebbero non essere mantenute, come a quell’uomo intubato alle tre di notte. “Ma poi mi sveglio?”. “Sì, certo”. Ulla sospira: “Ho fatto una promessa a fin di bene che non so se potrò mantenere. Era l’unica che potevo fare. Umanamente è dura stare di fonte a cose così”. Ma non si molla, anche quando tocca fare scelte drammatiche. Il medico torinese ci tiene a spiegare un aspetto su cui sono circolate notizie allarmanti, il fatto cioè che i malati più anziani o con gravi patologie pregresse non vengono più curati: “Anche in tempi non di pandemia in terapia intensiva si fanno scelte difficili, ci si trova davanti alla scelta di rianimare chi ha più possibilità di cavarsela, non è una indicazione legata ai posti che mancano, non siamo ancora al ‘tu sì, tu no’ per questo, nemmeno in Lombardia da quello che so”. I malati in cura in questi giorni sono ancora quelli infettatisi prima del lockdown, si guarda con preoccupazione e speranza ai prossimi giorni, quando i contagi dovrebbero rallentare, “e se non calano sarà un problema”. Non ha paura di ammalarsi? “I colleghi che rischiano di più sono quelli in prima linea – spiega – quelli che stanno nelle zone grigie, che hanno a che fare con pazienti che potrebbero essere infetti, là dove un rischio potenziale c’è ma i protocolli sono meno stringenti. Paradossalmente io rischio più di contagiarmi uscendo a fare la spesa che lavorando nel reparto Covid, dove abbiamo le protezioni necessarie: le famose mascherine, seppur contate, ci sono ancora, e non solo”. A Torino i contagi crescono più che altrove: “All’inizio abbiamo tutti sottovalutato la portata di questa pandemia, forse chi non ha un coinvolgimento diretto con qualcuno che si è ammalato pensava che a lui non potesse toccare. Adesso quasi tutti conoscono anche solo indirettamente qualcuno contagiato, e iniziano a capire, a stare a casa”. Bisogna stare a casa, resistere lasciando che i medici facciano il loro lavoro negli ospedali fino a che l’emergenza non sarà passata. “E’ un’emergenza che ci sta cambiando nel profondo, con i colleghi sorridiamo dicendo che possiamo toccarci solo quando siamo completamente coperti. Io non sono un sentimentale ma in questi giorni più di tutto vorrei un abbraccio”. Ulla e gli altri medici del San Luigi hanno da poco svegliato e staccato dal ventilatore una ragazza che era stata intubata per nove giorni. “Aveva partorito due giorni prima con un taglio cesareo, poi la diagnosi e la sedazione. Appena ha ripreso coscienza ha chiesto subito del figlio, che sta bene ed è a casa con il papà. Queste sono le cose che ti fanno guardare al futuro con speranza”.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.