(foto d'archivio LaPresse)

Poiché l'Apocalisse è sincopata (Covid) anche la soluzione è un acronimo: DPCM

Salvatore Merlo

La rivincita del burocratese nei nostri linguaggi reclusi

Non puoi mica uscire senza autocertificazione, non l’hai letto il DPCM?”, dicono adesso la nonna, la zia, la mamma. E anche Giuseppe Conte, l’altra notte, mentre annunciava le ultime disposizioni, citava questo acronimo un tempo misterioso, DPCM appunto, con aria di condivisa familiarità, rivolgendosi agli italiani che lo ascoltavano in televisione e su Facebook. Il linguaggio burocratico che vive in una dimensione collettiva, verrebbe da pensare. “Il DPCM che tutti voi sapete cos’è”, diceva infatti Conte. E’ il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, certo: ma chi davvero lo sapeva, prima? Chi mai aveva usato questa espressione in famiglia, prima? Prima del virus.

 

Ecco allora forse la parola che da adesso in poi rimanderà per sempre a un mondo, a un’atmosfera, a un periodo, a uno stato psicologico, quello della reclusione in casa, ai giorni delle rinunce a una parte delle libertà quotidiane che sembravano scontate. DPCM, insomma. La parola di un’epoca, chissà, insieme e forse molto più di “triage” e di “lock down”, di “super spreader” e di “droplet”, che pure sono le parole del contagio e della medicina, del contenimento e della virologia. Ma forse nella diffusione popolare dell’espressione DPCM c’è qualcosa di più e persino, per un italiano, qualcosa di stordente. C’è la rivincita del burocratese, del linguaggio astruso e nemico, che invece improvvisamente si fa comune, e si spera persino risolutivo, o comunque rappresenta il desiderio della salvezza e dunque descrive e scioglie la scena dell’Italia che reagisce alla pandemia.

 

Il DPCM prevede l’impossibile dunque comica distanza di un metro l’uno dall’altro degli operai nelle catene di montaggio delle fabbriche, certo, ma questo ermetico insieme di sillabe è anche ciò che ha finalmente regolato la sregolatezza delle mille autonomie d’Italia, il “non si sa mai” dei sindaci che aprivano e chiudevano le scuole: ha regolato il livello di consapevolezza e di rischio per tutti.

 

Così alla fine scopriamo che la parola DPCM ci assomiglia e rappresenta molto più di quanto non credessimo. L’acronimo e il linguaggio sincopato sono infatti il lessico di tutti noi reclusi digitalizzati, che soli in casa comunichiamo via WhatsApp con gli amici, i parenti e i colleghi. Il linguaggio degli isolati da coronavirus è una sequela di suoni consonantici, una implosione fonica, quella delle chat e dei messaggini: “dm” invece di domani, “pm” per pomeriggio, “sn” per sono, “cmq” per comunque. E allora in questo mondo in cui persino l’Apocalisse è sincopata e astrusa (Covid-19), sembra quasi logico che la risposta stia nella famigliarità acquisita con un imperscrutabile acronimo che solo fino a qualche giorno fa veniva maneggiato esclusivamente nei corridoi del Parlamento e di Palazzo Chigi. La contrazione delle parole economizza il pensiero, non paga il biglietto della complessità, semplifica, forse imbroglia, ma probabilmente rende anche più accettabile lo stato delle cose. Dunque benvenuto DPCM, parola dell’anno, parola del virus.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.