(foto LaPresse)

Dopo l'epidemia? Protezionisti e ambientalisti uniti per distruggere la globalizzazione

Gideon Rachman profetizza un'unione tra falchi securitari e seguaci di Greta: ma rispondere alla paura chiudendoci nei nostri confini nazionali non sarà la soluzione

“Il libro di Kenichi Ohmae, The bordless world, fu pubblicato nel 1990, l’anno dopo il crollo del muro di Berlino, diventando uno dei classici dell’era della globalizzazione. Ma i confini, spinti dal coronavirus, stanno adesso reclamando vendetta” scrive Gideon Rachman sul Financial Times in un articolo intitolato “Il nazionalismo è un effetto collaterale del coronavirus”. 

 

 

“Quando la pandemia finirà – scrive Rachaman –, le maggiori limitazioni alla circolazione saranno riviste. Ma è improbabile che ci sarà un completo ripristino del mondo globalizzato per come lo abbiamo conosciuto prima del Covid-19. Lo stato-nazione sta ritornando in auge, sospinto dalla straordinarietà della crisi”. 

 

 

Secondo Rachman, sono tre le ragioni che spiegano la rivoluzione in atto. “Primo, la pandemia sta dimostrando che in periodi di emergenza le persone si rifugiano negli stati nazione – che hanno forze finanziarie, organizzative ed emotive di cui le istituzioni globali sono carenti. Secondo, la malattia sta rivelando la fragilità della catena di approvvigionamento globale. È molto difficile credere che gli stati grandi e ricchi continueranno ad accettare la situazione attuale, in cui sono costretti a importare molte delle scorte di medicine vitali. Infine, la pandemia sta rinvigorendo tendenze politiche che erano forti già prima che la crisi scoppiasse – in particolare le richieste di maggiore protezionismo, localizzazione delle produzioni e controlli più stringenti alle frontiere”. 

 

 

In questa fase inasprire il controllo alle frontiere, e ritornare alla forma dello stato-nazione, è la tesi dell’articolo, non è una cosa sbagliata: si tratta del tipo di risposte di cui si fanno carico le democrazie quando c’è un repentino cambiamento nel clima generale. “Il problema è quando lo stato-nazione sfocia in un nazionalismo incontrollato, che porta a un crollo nel commercio globale e al quasi abbandono della cooperazione internazionale. Gli scenari peggiori da questo punto di vista riguarderebbero il collasso dell’Unione Europea e la rottura delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, che potrebbe plausibilmente culminare in una guerra”.

 

Rachman spiega che il ritorno allo stato-nazione è particolarmente problematico in Europa, la principale organizzazione internazionale che ha tentato di trascendere i singoli stati. Viene ricordato come nel messaggio alla nazione la cancelliera tedesca Angela Merkel non abbia nominato nemmeno una volta l’Ue, di come siano stati riattivati i controlli alle frontiere, e delle critiche che la generalità degli esponenti politici europei ha rivolto a Bruxelles per non essere stata in grado di fornire prontamente la solidarietà che aveva promesso. 

 

 

“Date le dimensioni dei bilanci dell’Ue e dei singoli stati europei, è inevitabile che i governi cercheranno di raccogliere quante più risorse possibili, visto che devono cercare di fermare la recessione. Nei prossimi giorni l’Ue dovrebbe presentare un grande piano pan-europeo ricco di misure fiscali. Ma quando la crisi si intensificherà – e le risorse finanziarie e mediche saranno sempre più scarse -, le pressioni sulla solidarietà europea non potranno che crescere”.

 

Dall’altro lato, l’emergenza globale legata alla diffusione del coronavirus ha acuito l’antagonismo tra Stati Uniti e Cina, con le accuse reciproche su chi avesse più responsabilità nella diffusione della pandemia. “È una situazione che rinforza il potere di chi nell’amministrazione Trump avrebbe sempre voluto smantellare la catena di produzione globale per rilocalizzare la produzione negli Stati Uniti” scrive Rachman, riportando le dichiarazioni di Peter Navarro, il più ardente protezionista alla corte della Casa Bianca, secondo cui il virus dimostrerebbe che in un’emergenza globale “gli Stati Uniti sono soli”. 

 

 

Se, poi, negli ultimi anni, c’erano state nazioni come la Gran Bretagna in cui i consulenti del governo suggerivano di poter fare completamento a meno della produzione interna di cibo, “nel caso di nazioni che, al pari degli individui, praticano l’auto-isolamento, nessuno può allegramente assumere che i beni di prima necessità possano essere importati dall’estero”.

 

Ma non bisogna credere che la resistenza alla globalizzazione possa essere cavalcata solamente dai falchi del protezionismo e della sicurezza nazionale. Il movimento “acquisterà ancor più forza quando si fonderà con altre correnti politiche che stavano crescendo ben prima che qualcuno sapesse cosa fosse il Covid-19. A sinistra, il movimento ambientalista stava già stigmatizzando i viaggi aerei e chiedeva che alla globalizzazione si preferisse la localizzazione. A destra, la richiesta di muri per allontanare i rifugiati e gli immigrati era sempre più forte” scrive l’autore dell’articolo. 

 

 

Sebbene è probabile che gli anti-globalizzazione avranno il vento a favore non appena la pandemia sarà finita, secondo Rachman non offrono le soluzioni migliori. “Contrariamente a quanto si possa pensare, una pandemia è un problema globale alla quintessenza, che richiede una qualche forma di governance internazionale. Rivitalizzare l’economia globale sarà ancor più difficile se i paesi si muoveranno secondo una condotta autarchica”. 

 

 

“A livello nazionale, tutti disprezziamo gli accaparratori che fanno incetta di rotoli di carta igienica o lasciano vuoti gli scaffali dei supermercati. Ma cosa succede quando sono gli stati a comportarsi così? Potremmo scoprirlo presto”, è la considerazione conclusiva.