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Mascherine no global

Carlo Stagnaro

Il virus ci insegna che bisogna produrre tutto in patria? Alla fine ci salverà l’internazionalizzazione

Il virus venuto da Wuhan renderà il mondo un po’ meno piatto? Diverse filiere produttive hanno iniziato ad avere problemi da quando le fabbriche cinesi si sono fermate. Adesso che ci troviamo a corto di mascherine, ventilatori e altri beni essenziali, per i quali dipendiamo da fornitori esteri, molti si chiedono se non sia il caso di ripensare la globalizzazione. Lo ha fatto, da ultimo, il viceministro dell’Economia, Antonio Misiani: “La produzione [di dispositivi di protezione individuale] in questi anni è stata esternalizzata per motivi di costo – ha detto ieri a Radio 24 –. Non è più accettabile che produzioni strategiche noi le dobbiamo importare con tutte le difficoltà che stiamo vivendo in questi giorni in cui ognuno di noi è impegnato per telefono a sbloccare carichi alle dogane e parlare con stati stranieri per far arrivare tute e mascherine”. La frustrazione di Misiani è del tutto comprensibile, vista la drammatica situazione del personale medico e paramedico. Inoltre, egli non è certamente un attivista no-global o un nemico dell’integrazione europea: quindi il suo argomento merita attenzione e va preso sul serio. Tuttavia, il rischio è che la cura sia peggiore del male.

  

Lo si capisce con due esperimenti mentali. Il primo è quello di tornare indietro nel tempo a tre o quattro mesi fa. Non pochi avrebbero, anche allora, sottoscritto la richiesta di riportare a casa le produzioni “strategiche” (forse anche Misiani). Ma quanti avrebbero citato le mascherine? Il punto è che “strategico” significa tutto o niente; e, soprattutto, lo capiamo solo ex post. Non solo: oggi il problema coi dispositivi medici deriva dal fatto che il mondo intero deve affrontare il virus, e questo ha fatto letteralmente esplodere la domanda. Ma, in generale, choc simili sono territorialmente limitati: in questi casi è meglio poter contare su fornitori esteri, anziché essere legati a uno solo (o pochi) nel proprio paese. L’esempio di scuola è quello del Regno Unito negli anni Ottanta: la dipendenza dal carbone era un elemento di enorme vulnerabilità del paese, che infatti deve il proprio boom economico, tra l’altro, alla vittoriosa lotta di Margaret Thatcher coi sindacati dei minatori, alla privatizzazione delle imprese energetiche e al conseguente “dash to gas”. Del resto, persino nella situazione tragica in cui ci troviamo, poterci approvvigionare presso paesi terzi è un’ancora di salvezza: se le nostre imprese sono ferme, l’unico modo di procurarci prodotti intermedi o finali è quello di rivolgerci chi non ha ancora tirato il freno a mano, o è già ripartito. Far parte di una rete è sempre meglio che essere isolati.

  

L’altro esperimento consiste nel portare la tesi della strategicità alle sue logiche implicazioni. Poiché non sappiamo quali beni si riveleranno davvero strategici, ne segue che bisogna mantenere un presidio in tutti i settori e in tutti i principali prodotti. Non solo: come dimostra la vicenda dell’iPhone, la dipendenza anche solo per un minuscolo componente rischia di pregiudicare il senso di tutto. Dunque, non solo le produzioni strategiche andrebbero riportate in Italia, ma tutte le filiere da cui esse dipendono. Ma se ogni nazione ragionasse in questi termini, sarebbe la fine non solo della globalizzazione, ma anche della specializzazione del lavoro, che è la madre della produttività. In sintesi, se le scelte di localizzazione delle imprese e lo sviluppo delle catene del valore fosse stabilito top down anziché emergere bottom up, ciascun paese sarebbe (forse) padrone del suo destino, ma avrebbe anche un destino più povero e meno sicuro.

  

Semmai, il coronavirus ci obbliga ad accettare che, come dicono gli anglosassoni, “shit happens”. Per quanto paesi, imprese e famiglie si attrezzino contro i rischi, può sempre verificarsi qualche evento del tutto imprevedibile e potenzialmente catastrofico. E’, allora, importante essere pronti e flessibili: promuovendo la crescita e la produttività quando si può per mettere la schiena al riparo quando si deve. Dal coronavirus, alla fine della giornata, ci salveranno i frutti della ricerca farmaceutica. Non dovremmo chiederci se sia italiana o tedesca, cinese o americana, ma interrogarci su come averne sempre di più e sempre più di qualità, ovunque nel mondo.