Il virus di un altro mondo

Luciano Capone

Le conseguenze economiche dell’epidemia e l’impatto sul processo di globalizzazione. Il controllo politico del contagio e la gestione dei rischi nell’epoca delle risposte scientifiche globali. Come il Covid-19 ha inceppato gli ingranaggi delle nostre vite

Negli anni 70 il matematico Edward Lorenz, uno dei pionieri della teoria del caos, spiegava la fragilità dell’equilibrio di un sistema con l’ormai celebre locuzione secondo cui “il batter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas”. Tutti l’abbiamo sempre preso come un paradosso, una metafora estrema per spiegare come in un ecosistema complesso una piccola variazione può produrre grandi cambiamenti. Improvvisamente all’inizio di quest’anno abbiamo scoperto che il “battito d’ali”, probabilmente di un pipistrello in un mercato di una cittadina cinese, è un coronavirus che ha prodotto uno sconvolgimento epocale e globale, molto più grave di un semplice tornado in Texas. Questa pallina rossa, della grandezza di 120-160 nanometri (un nanometro corrisponde a un miliardesimo di metro, o a un milionesimo di millimetro), si è inserita negli ingranaggi delle nostre vite, delle nostre istituzioni e dell’economia globale mandandoli in crisi. Inizialmente pensavamo che il cambiamento più grande fosse il dubbio sull’andare o meno al ristorante cinese, poi abbiamo presto capito che è diventato sull’andare a lavorare, sull’uscire di casa e sull’abbracciare i nostri cari. In questo numero del Foglio abbiamo cercato di coinvolgere gli esperti in varie discipline (economisti, filosofi, politologi, storici e scienziati) per capire cosa è cambiato con l’arrivo di quest’ospite inatteso e indesiderato. Cosa c’è da imparare dalle epidemie del passato, se e come cambierà la globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta, come dobbiamo affrontare la gestione del rischio, in che modo e in che misura la risposta delle liberaldemocrazie deve essere diversa da quella dei regimi autoritari. Infine perché la globalizzazione non è semplicemente ciò che ci ha portato il coronavirus (i patogeni e le epidemie arrivavano e uccidevano anche di più nei secoli passati), ma il processo di condivisione di risorse e di conoscenze che può produrre le soluzioni per fermare questa pallina rossa, e magari bucarla.

Il vero vaccino è proprio la globalizzazione

 

di Alberto Mingari e Carlo Stagnaro

Istituto Bruno Leoni

 

Nell’epoca del coronavirus non è più tutta colpa del neoliberismo. Adesso è colpa della globalizzazione – che, beninteso, del neoliberismo è madre o figlia, a seconda del grado di complottismo del vostro interlocutore. L’accusa sembra, stavolta, più solida. Non stiamo “importando” un virus di provenienza cinese? Che le persone, muovendosi, si portino appresso le loro malattie non è notizia di oggi. Di epidemie è costellata l’intera storia umana, che è pure storia di spostamenti e migrazioni. Oggi a quegli spostamenti, grazie alla “globalizzazione”, corrisponde un grado più elevato di divisione del lavoro. La differenza fra la globalizzazione che conosciamo noi oggi, e fasi di crescita dello scambio internazionale in epoche precedenti, è data dalla misura in cui si sono complicate le filiere produttive, rendendoci tutti molto più interdipendenti.

 

Sul piano economico, l’argomento anti globalizzazione è che questa interdipendenza ha costi che abbiamo trascurato, e che ora riguardano tutti. E’ un triste esercizio immaginare che ne sarebbe stato, del nostro benessere, se negli ultimi anni le imprese italiane, specie quelle manifatturiere, non fossero state capaci di inserirsi nelle catene globali del valore creando ricchezza e occupazione per il nostro paese. Semmai, l’impatto economico del coronavirus dipende proprio dal fatto che, almeno temporaneamente, queste reti di rapporti commerciali si sfilacciano – per difficoltà oggettive o per l’insorgere di sfiducia o timori reciproci – e il mondo attraversa una fase di de-globalizzazione. Ciò può avere effetti positivi per alcune imprese, che vorrebbero fare il “reshoring” di alcune produzioni: forse la politica, più che mai, dovrebbe prestare attenzione a non ostacolarli. Ma il reshoring può avere effetti benefici “localizzati” (quell’azienda, quei lavoratori, quel prodotto) e tuttavia non può certo compensare il problema della perdita non solo di servizi e beni oggi prodotti, ma dell’opportunità di innovare, realizzarli diversamente e in modo più produttivo, che è possibile solo in un mercato aperto nel quale il numero dei produttori potenziali è il più ampio possibile.

 

C’è anche un altro elemento di importanza cruciale. Noi vediamo le ripercussioni di uno shock globale, e giustamente siamo preoccupati per quello che potrebbero comportare. Ma, grazie alla globalizzazione, non conosciamo più (o conosciamo solo in forma molto lieve) le conseguenze devastanti che avevano, nel passato, gli shock locali. Una carestia o un’epidemia potevano determinare la scomparsa di intere comunità. Se questo non accade più è proprio perché la dipendenza reciproca agisce come una rete di salvataggio per tutti. Anche in un momento di grande ansia, non temiamo seriamente che possano venir meno le derrate alimentari o che servizi essenziali non saranno più disponibili.

E’ vero, invece, che alcuni settori economici subiscono un impatto particolarmente grave. Se per la maggior parte delle imprese si tratta di stringere i denti e tirare avanti, alcune sanno di aver perso una quota del loro business forse irrimediabilmente, e comunque per un periodo molto lungo.

 

E’ il caso, ovviamente, del turismo, ma anche di alcune attività agroalimentari, di molte partite Iva, che non godono di alcuna forma di protezione e più in generale dei servizi: non si possono immagazzinare e vendere in futuro le giornate di lavoro dei barman, delle manicure o dei dentisti. Per i più giovani, per chi oggi si affaccia sul mercato del lavoro, la situazione è particolarmente pericolosa, dal momento che l’impressione è quella di una devastazione di opportunità. Tradizionalmente, il “piccolo” è resiliente: una trattoria chiude oggi ma gli stessi fattori produttivi possono riorganizzarsi in un’altra trattoria, appena il tempo volga al bello. Se non fosse che la vita dei “piccoli” è complicata da adempimenti e obblighi di ogni tipo. E’ proprio in questo caso che ci si aspetta che lo stato svolga un ruolo da cuscinetto. Ma ciò presuppone uno sforzo di adattamento a un mondo che cambia: per esempio, facilitare l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali, non ostacolare il fallimento di quelle inefficienti e sostenere i lavoratori durante le loro transizioni professionali. Purtroppo, la politica italiana ha preferito difendere sistematicamente lo status quo, anche facendo un uso generoso della leva fiscale: in tal modo ha rallentato i processi di aggiustamento strutturale, e si è privata dello spazio fiscale che servirebbe proprio in una situazione come quella odierna. Ma, soprattutto, ha anestetizzato il dinamismo imprenditoriale. Del quale avremo tremendamente bisogno, quando l’emergenza sarà finita e dovremo provare a ricostruire il nostro benessere.

Storia della quarantena e del controllo sociale delle epidemie  

 

di Gilberto Corbellini

Storico della medicina, direttore Dsu (Dipartimento scienze umane e sociali) - Cnr

  

Le epidemie hanno svolto funzioni determinanti nel processo di costruzione dello stato moderno e delle politiche pubbliche. La moderna burocrazia nasceva in primo luogo con lo scopo di esercitare un controllo sociale delle persone nel contesto dei rischi epidemici: in Europa tutti i paesi si spaventano con l’arrivo della Peste Nera, che nell’ambito della pandemia si manifestò a ondate successive e in luoghi diversi fino alla scomparsa dall’Europa nel Settecento. Dopo che nel 1377 fu inventata a Ragusa la quarantena (all’inizio erano trenta giorni o trentino), per impedire che le navi in arrivo sbarcassero la peste, nei secoli successivi questa procedura fu adottata da diverse città e, in particolare nel Seicento, si affermarono magistrature dedicate a raccogliere informazioni da utilizzare per vietare o per regolare i movimenti delle persone, con livelli crescenti di invadenza nelle libertà personali ed economiche.

 

Le politiche di restrizione o quarantene si basavano sull’idea che la trasmissione delle malattie epidemiche avvenisse per contatto di un sano con malati o con oggetti toccati da malati. Una teoria che aveva una base magica per il tempo, e non era accettata dalla maggioranza della comunità medica, che preferiva qualche versione della teoria miasmatica, cioè l’attribuzione causale a fattori costitutivi dell’ambiente climatico o idrico-tellurico. Non erano tanto i medici a invocare quarantene e cordoni sanitari, mai i funzionari politici. In primo luogo quelli conservatori o tradizionalisti, che additavano negli ebrei, negli stranieri o nelle persone strane dei possibili untori. Intanto in Europa si affermava da un lato l’idea che la libertà personale e quella economica fossero alla base della superiorità civile e della ricchezza degli stati liberal-democratici. I conservatori sospettavano che le epidemie si diffondessero sfruttando queste libertà, che si potevano salvare se le infezioni si attribuivano, invece che a parassiti invisibili, a condizioni locali di natura ambientale.

 

Lo storico della medicina Erwin H. Ackerknect sostenne in una famosa conferenza del 1948 che le risposte dei governi alle epidemie, tra fine Settecento e seconda metà Ottocento, erano basate sulle loro prospettive economiche e politiche. Ad esempio, i governi che favorivano le politiche economiche e le visioni conservatrici sceglievano di applicare questa mentalità al trattamento e alla prevenzione delle malattie. In altre parole, favorivano un approccio più attivo nel controllo mediante vaccinazioni antivaiolose obbligatorie, restrizioni e/o divieti su scambi sessuali o quarantene forzate, anche se queste misure significavano violare la libertà individuale o il commercio. I governi più liberali, d’altra parte, sceglievano misure più ambientaliste, come miglioramento dei servizi igienico-sanitari o vaccinazioni volontarie. Questi approcci più discreti erano usati per non ostacolare il commercio o violare le libertà personali. Un non meno famoso studio, pubblicato nel 1999 dallo storico e filantropo dell’Università della California Peter Baldwin, mostra che furono in realtà diversi i fattori che influenzarono i tentativi dei governi di controllare le epidemie. Era la minaccia esplicita di una particolare malattia a influenzare lo sviluppo dell’ideologia politica: strategie come cordoni militari e quarantene non erano sempre il prodotto di un governo “conservatore”, ma di regola delle nazioni più povere che non potevano permettersi i costi a lungo termine dei metodi ambientalisti.

 

Si deve anche tenere conto del fatto che le misure possono variare di efficacia a seconda della natura dell’agente infettivo. La quarantena funzionava con la peste, perché la malattia evolve nell’uomo entro 37 giorni e anche se i topi con addosso le pulci infette potevano comunque circolare, le pulci vivono in media due settimane e quindi si può interrompere il ciclo di trasmissione. Ma il colera si trasmetteva con l’acqua e la quarantena era utile solo se riguardava navi, mentre a terra serviva la sanificazione ambientale.

 

Di fronte alle argomentazioni secondo cui la quarantena era disastrosa in termini economici e commerciali, quando i danni del colera si ritirarono e quando le opinioni sull’eziologia cambiarono, i regimi europei autoritari iniziarono gradualmente a liberarsi degli aspetti più draconiani di quel sistema. All’estremità opposta della scala politica, stati ambientalisti più liberali come quelli nordeuropei indossavano armature di contenimento: sorveglianza, disinfezione, isolamento e/o ricovero in ospedale e terapia. Baldwin sostiene che la posizione fisica di un paese in relazione alla cronologia di un’epidemia, il commercio internazionale, il movimento di massa delle persone, l’emergere della batteriologia e l’esperienza cumulativa nel trattare le minacce epidemiche sono stati altrettanto importanti per queste trasformazioni quanto la colorazione politica dei regimi che li sovrintendevano.

La notizia della fine della globalizzazione è fortemente esagerata

 

di Michele Boldrin

Joseph G. Hoyt Distinguished University Professor of Economics, Washington University in St. Louis

  

Molti teorizzano che l’epidemia di Covid-19 determinerà una svolta epocale nel processo di globalizzazione: lo rallenterà e forse ne segnerà la fine. Dopo che la guerra commerciale con la Cina e la messa in atto di Brexit hanno suonato le campane a morto, la pandemia generata dal coronavirus inizierà il funerale vero e proprio. La globalizzazione sta morendo. Possibile? Certamente: la globalizzazione è un processo mutevole, frutto dell’evoluzione tecnologica e di decisioni economico-politiche. I sentieri seguiti sino a ora non avevano nulla d’inevitabile e cambieranno se un numero sufficiente d’esseri umani si convincerà che non conviene più camminare su di essi perché altri appaiono più convenienti. A oggi Africa e India hanno zero morti su meno di cento casi d’infezione; assieme fanno più d’un terzo della popolazione mondiale e, se proprio volete arrivare alla metà, aggiungeteci l’America latina. Praterie umane sterminate che il processo d’industrializzazione ha solo iniziato a toccare. La globalizzazione non dipende dalla Cina ma, piuttosto, è la Cina che dipende dalla globalizzazione. Farà tutto il possibile per continuare a parteciparci. Più utile chiedersi quali saranno le conseguenze materiali della pandemia e come esse possano influenzare il commercio internazionale e il movimento di persone nell’emisfero nord del pianeta. Alcuni effetti di tipo culturale li abbiamo già visti: la tolleranza delle élite urbane cinesi per gli antichi costumi alimentari e sanitari del proprio popolo è drasticamente diminuita. Questo comporterà presto – con le buone o, come nel caso del riscaldamento a carbone nelle città, con le cattive – cambiamenti radicali. 

 

Le medesime élite sembrano aver colto anche l’utilità di un servizio sanitario pubblico, altro passo verso l’occidentalizzazione. Hanno purtroppo anche visto confermati i vantaggi del controllo sociale tramite tecnologie digitali, metodo che qualche aspirante stregone vorrebbe replicare anche da noi: un po’ di “cinesizzazione” dell’Europa non poteva mancare come conseguenza dell’ennesimo virus asiatico.

Tutto questo non eliminerà il timore occidentale per le infezioni cinesi e qui sta la spinta per chi già intona il De Profundis. Contava su questo Wilbur Ross, segretario al Commercio estero degli Stati Uniti, nel salutare l’arrivo del coronavirus come l’occasione per riportare a casa un po’ di fabbriche salpate per la Cina tre decenni orsono. Peccato che quelle fabbriche non esistano più e si siano trasferite in Vietnam, Indonesia o Ghana da tempo. La globalizzazione della produzione manifatturiera ha cominciato a far uscire le fabbriche dalla Cina anni fa e non in direzione di paesi dove le condizioni sanitarie sono migliori. Quelle di Ross e dei suoi imitatori sono solo scemenze di politicanti poco familiari con i costi di produzione e trasporto dei beni durevoli. O di ex ex ministri che vaneggiano d’una Cina con mezzo miliardo di anziani: la popolazione maggiore di 64 anni è meno dell’11 per cento. Tiremm innanz’.

 

Caleranno nel breve periodo i flussi turistici ma dubito che l’Europa, e l’Italia in particolare, facciano il possibile perché questo perduri. Uno sguardo alle notizie che arrivano dal nostro settore turistico sembra sufficiente per rendere questa previsione non desiderabile. Si adotteranno misure sanitarie migliori sia da un lato che dall’altro (ai cinesi l’Europa piace assai) e, acqua alta permettendo, Venezia verrà di nuovo e “felicemente” invasa. La Diamond Princess, dopotutto, è risultata un luogo meno rischioso della Pianura padana durante un’infezione virale. Rimangono gli scambi scientifici e i servizi ad alto contenuto tecnologico. Qui le infezioni c’entrano come i cavoli a merenda, visto che buona parte dei medesimi avviene da tempo in quella modalità che le università italiane hanno scoperto solo nelle ultime settimane esistere, ovvero in remoto. Che un’emergenza sanitaria potesse stimolare l’adozione di tecnologie più avanzate nel settore pubblico italiano era ipotesi coltivata solo da accademici, ma non era così campata per aria. Vogliamo scommettere che la globalizzazione continuerà imperterrita, come la teoria economica prevede? Ci risentiamo fra un decennio.

Mooc: il virus può accelerare l’istruzione digitale globale

 

di Mauro Calise

Professore di Scienza politica, Università di Napoli Federico II

  

Quando la pandemia sarà passata, ci metteremo un po’ a risalire la china dell’ottimismo globale. Colpiti nella fragilità dei nostri corpi, non ci fideremo più ciecamente della rapidità con cui si può spostare la realtà fisica. La circolazione delle merci farà prima a riprendersi, anche se con costi notevoli. Quella delle persone farà molta più fatica. Soprattutto sulla lunga distanza, e nei posti altri da noi – che ieri ci intrigavano e domani ci impensieriranno. Ma c’è una globalizzazione mite che, invece, farà passi da gigante. Anzi da gigabyte. E’ quella della digital education, l’alta formazione a distanza che sta modificando il dna dell’ecosistema universitario. E che è pronta per rivoluzionarlo. Nome in codice dell’invasore: Mooc, Massive Open Online Courses. I corsi multimediali di qualità che i maggiori atenei del mondo mettono a disposizione gratuita di chiunque abbia voglia di imparare. Non date retta a chi vi dice – atenei privati in testa – che, dopo il boom iniziale, la bolla si sta sgonfiando. In sette anni, con una crescita esponenziale, siamo arrivati a 110 milioni di learner che studiano sulle principali piattaforme – edX, Coursera, Udacity, FutureLearn – che distribuiscono 15 mila corsi prodotti da un migliaio di università. Mentre comincia a delinearsi meglio il panorama dell’offerta e utenza cinese, che varcherebbe – cifre ancora ufficiose – i 200 milioni di studenti.

 

Sono tre i fattori che fanno volare i numeri – e il gradimento – dei Mooc. Il primo è il brand. Tutto è cominciato con un Mooc sull’intelligenza artificiale di Stanford che ha raccolto 160 mila iscritti. Nell’epoca della rivolta populista contro le élite, i Mooc danno accesso a chiunque al top della cultura mondiale. Il secondo asset è il linguaggio. I Mooc non riproducono in streaming – o in videoconferenza – la lezione universitaria tradizionale, già difficile da seguire in classe figuriamoci in remoto. Invece, la smontano e ricompongono, adattandola – nell’interfaccia, nel formato, nell’usabilità – al frame mentale dei nativi digitali. Così i docenti possono essere incontrati – e studiati – anytime anywhere, da desktop o da mobile, a casa o in treno. La terza arma è la scalabilità. Una volta prodotto, un corso di qualità può essere messo a disposizione di una platea praticamente infinita. Con costi infinitamente minori, e impatto garantito dal prestigio e autorevolezza dell’autore. A queste caratteristiche va aggiunta l’estrema flessibilità dei moduli didattici. Che possono essere facilmente modificati e aggiornati. O riutilizzati in contesti – e con target – diversi. Tra gli sbocchi principali dei Mooc c’è il mondo del lifelong learning, la formazione professionale permanente che è diventata il tratto dominante dei profili lavorativi scanditi dalla innovazione tecnologica. Dal 3+2 dei cicli universitari ordinari – i due livelli di laurea - si passa al 30+20: una domanda di istruzione continua che è possibile soddisfare soltanto con prodotti e strategie digitali. Sempre che le università abbraccino con convinzione e determinazione questa sfida. Ed è qui che si incontra il limite principale del fenomeno.

 

Finora, soprattutto in Europa, sono ancora una minoranza gli atenei che hanno investito su questa frontiera. La principale eccezione italiana è Federica.eu, la piattaforma dell’Università di Napoli Federico II, che è diventata leader europea grazie a dieci anni di esperienza e al contributo dei fondi strutturali Ue. Oggi è nei top ten al mondo tra gli atenei che producono Mooc, con un portfolio di quasi duecento corsi, in tutte le principali discipline, accessibili gratuitamente da tutti gli studenti universitari italiani, e dai docenti che vogliano adoperarli per supportare o integrare i propri insegnamenti. Un’opportunità tanto più preziosa in questa congiuntura drammatica di interruzione delle lezioni in aula. Federica non può, ovviamente, colmare da sola uno spazio in espansione vertiginosa di formazione di eccellenza aperta a tutti. Ma – anche grazie alle collaborazioni già in essere con altri atenei, quali Padova, Bicocca, Pavia, Firenze, L’Orientale – è una best practice al servizio del sistema paese. Nell’auspicio che prenda corpo una cabina di regia nazionale che trasformi questa crisi economica e sociale in una straordinaria occasione di crescita culturale. Per una volta, è a portata di mano una riforma che non richiede costi ingenti e tempi lunghi, e neppure farraginose procedure. Ma solo la fiducia che, in un mondo che sta pericolosamente tornando alle barriere e alle frontiere, la risorsa più importante della democrazia resta un sapere senza limiti.

Il rischio Covid-19, il blocco dei voli dalla Cina e l’effetto Peltzman

 

di Matteo Motterlini e Matteo Perini

Cresa - Centro di ricerca di epistemologia sperimentale e applicata, Università Vita Salute San Raffaele

 

Nonostante le ostentate misure di sicurezza prese dal nostro paese per contrastare l’arrivo del coronavirus, i timori delle scorse settimane si sono concretizzati e l’Italia versa oggi in uno stato di paralisi economica e agitazione psicologica, tra le prime al mondo per numero di casi. Il 13 febbraio il ministro Speranza dichiarava che “l’Italia è il paese con il più alto livello di salvaguardia e sorveglianza sulla diffusione del coronavirus”. In particolare la sospensione di tutti i collegamenti aerei con Cina e Taiwan è stata la decisione più drastica, presa in tempi brevissimi, con il plauso del premier Conte, il quale confermava che “l’Italia è all’avanguardia per le sue misure di massima precauzione”. Come si spiega allora un corso degli eventi così contrario alle misure adottate? Una ricostruzione precisa non è ancora possibile. L’infettivologo Massimo Galli ha posto l’attenzione sugli ospedali: “Una struttura sanitaria si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio”. Walter Ricciardi, membro dell’Oms, ha sottolineato che “quando vengono contagiati i medici significa che non si sono messe in campo le pratiche adatte”.

 

Eppure nessuno fin qui ha considerato un fattore di natura comportamentale. Una trappola mentale ben nota agli esperti di percezione del rischio, che va sotto il nome di effetto Peltzman. Questo fenomeno, conosciuto anche come “compensazione del rischio”, prende il nome dall’economista di Chicago che per primo ha valutato gli effetti paradossali conseguenti a misure di regolamentazione volte a tutelare la sicurezza delle persone. Per esempio, l’obbligo preventivo delle cinture di sicurezza in auto, può modificare il comportamento delle persone alla guida verso una minor prudenza, con maggiori rischi per se stesse e gli altri. In pratica, il regolatore fa uscire il rischio dalla porta e noi, sentendoci più sicuri, lo facciamo rientrare dalla finestra.

 

L’effetto Peltzman corrisponde dunque a quei comportamenti, prevalentemente inconsapevoli, che vanno in direzione contraria all’obiettivo delle misure precauzionali, riducendo così il livello di prudenza che sarebbe necessario adottare. Questo fenomeno viene talora invocato per spiegare risultati di policy che sono inferiori alle aspettative, e riguarda gli ambiti più disparati, dalla sicurezza sul lavoro al sesso, dal consumo di alcolici ai lavori domestici, dallo sport alle decisioni finanziarie. Ecco il punto: se un provvedimento politico non diminuisce il rischio reale, come nel caso delle misure italiane sul blocco totale dei collegamenti aerei diretti con Cina e Taiwan, ma crea solo l’illusione di farlo, ciò condurrà a comportamenti e decisioni incaute e quindi, di fatto, a un maggior rischio reale complessivo per la popolazione. D’altronde, l’inefficacia sul piano della sicurezza di questo provvedimento è stata sottolineata da numerosi esperti (e particolarmente ingiustificabile è la chiusura dei voli da Taiwan, con solo 10 casi positivi su oltre 20 milioni di abitanti). Secondo l’effetto Peltzman, pertanto, tale misura potrebbe essere stata non solo superflua, ma persino controproducente. La letteratura di scienze comportamentali indica chiaramente che più un provvedimento atto alla riduzione di un rischio è visibile e ostentato, maggiore è l’effetto di compensazione del rischio che ne consegue. E sappiamo quanto sia stata imponente e unica nel suo genere la campagna mediatica su questa iniziativa da parte di alcuni politici del nostro paese. Le conseguenze pratiche potrebbero essere le più varie: un paziente che sottovaluta di riportare informazioni rilevanti, un medico che sottovaluta il rischio di ammalarsi lui stesso. Dove la cautela è importante, questo insidioso effetto può sempre colpire.

 

Le nostre risorse psicologiche di attenzione sono scarse, e non si può pretendere che siano sempre focalizzate dove dovrebbero. E’ quindi normale aspettarsi un comportamento di massima accortezza solo quando rischio percepito raggiunge un livello significativo. Ma se questa percezione è sviata da proclami e provvedimenti falsamente efficaci e inutilmente tranquillizzanti, e l’attenzione è rivolta all’inessenziale, allora viene messa sistematicamente a repentaglio la sicurezza dei cittadini. Vero è che l’effetto Peltzman potrebbe aver colpito anche i politici: misure come lo stop ai voli potrebbe averli falsamente rassicurati, depistando la loro stessa energia dai preparativi necessari per quando la crisi si sarebbe inevitabilmente palesata. Questa la linea che ci si augura prendano gli altri paesi, evitando le misure sensazionalistiche ai danni dell’Italia – e di loro stessi. Quando si traffica con il rischio, si progetta un intervento di regolamentazione e, segnatamente, lo si comunica, non si può prescindere dalle conseguenze comportamentali che eserciterà sui cittadini. In questo caso, tra le conseguenze, vi è proprio l’effetto Peltzman.

 

Sarebbe auspicabile regolamentare con la testa e non con la pancia (o, peggio, per la pancia degli elettori), e ragionare in termini di ecosistema dell’informazione e di architettura delle scelte, cercando di anticipare l’impatto psicologico degli interventi che si mettono in atto e dei loro prodotti non intenzionali.

Istituzioni e consenso: meglio il modello autoritario cinese o quello liberaldemocratico?

 

di Federico Boffa, economista, Libera Università di Bolzano, e Giacomo A. M. Ponzetto, economista, Crei (Centre de recerca en economia internacional) e Università Pompeu Fabra, Barcellona

 

Il coronavirus è un tema di salute pubblica, che va al di là della salute individuale. Chi si ammala, oltre a subire conseguenze su di sé, contribuisce a diffondere l’epidemia e a congestionare gli ospedali. Data questa forte componente di esternalità, la scienza economica ci insegna che le decisioni individuali porterebbero a comportamenti inefficienti e che è necessario invece darci collettivamente delle regole. Ci può inoltre fornire strumenti utili per capire i principi cui tali regole dovrebbero ispirarsi. Una tentazione è il modello cinese, basato – ci si consenta la semplificazione – su due pilastri. Primo, politiche molto restrittive imposte dall’alto e applicate con metodi autoritari. Secondo, informazione al pubblico con il contagocce. Da quanto visto sinora, pare in fondo sia stato efficace nel circoscrivere l’epidemia.

 

Ma è un modello da imitare in Europa? L’inefficienza più ovvia della risposta autoritaria, data senza consultare i cittadini e senza tenere conto delle loro esigenze, è quella sottolineata dai grandi pensatori della tradizione liberale, da Hayek a Einaudi. I governanti non sono onniscienti e rischiano l’errore opposto a quello degli individui privi di coordinamento: una reazione eccessiva che trascura i costi imposti ai cittadini da politiche restrittive. Il governo infatti percepisce chiaramente i benefici pubblici di arrestare un’epidemia; ma non i costi privati delle misure adottate, molto diversi per persone diverse, e noti agli individui più che ai governanti. Ad esempio, un blocco totale degli spostamenti procura un grave danno alle persone non autosufficienti che ricevono aiuto a domicilio; e analogamente a molte altre categorie, spesso le più deboli. Restrizioni indiscriminate, applicate su larga scala, possono dunque essere tutt’altro che ottimali anche qualora centrino l’obiettivo immediato di circoscrivere il contagio. Il limite più grave dell’autoritarismo è però forse un altro: la difficoltà di imporre dispoticamente politiche non condivise dai cittadini. Ricordiamo che la prima reazione delle autorità cinesi è stata quella, socialmente dannosissima, di proteggersi dall’opinione pubblica nascondendo l’epidemia e punendo i medici che davano l’allerta. La situazione più preoccupante è oggi in Iran, con un governo autoritario, ma largamente screditato e sfiduciato dai suoi cittadini, che perciò difetta di spazio di manovra. Come spiegano Timothy Besley e Torsten Persson nel libro Pillars of Prosperity, sia la storia sia la teoria economica insegnano che uno stato forte ed efficace emerge quando vi è un consenso che le istituzioni politiche perseguono l’interesse comune. Rispondono a questa necessità le istituzioni delle democrazie occidentali, che basano l’applicazione delle regole sulla legittimità e il consenso. I cittadini rispettano le regole, e approvano che siano fatte rispettare con sanzioni, perché in larga misura le condividono. Regole avvertite come immotivate vengono invece sistematicamente disattese. Come ci ricordano le grida manzoniane, è sovente impossibile arrestare questa tendenza inasprendo le sanzioni o comminandole in modo indiscriminato, anche in presenza di indizi soltanto vaghi. In Italia, purtroppo, la strada delle regole severe ma condivise è in salita. A differenza di quanto avviene in altri paesi, le nostre istituzioni di governo non incontrano, né forse hanno meritato, la fiducia generalizzata dei cittadini. Gli italiani vanno dunque persuasi della necessità di rispettare le regole hic et nunc per la gestione dell’attuale emergenza.

 

Guadagnare questo consenso richiede almeno tre cose. Primo, trasparenza e non paternalismo da parte dei governanti, a ogni livello. La trasparenza non è esente da costi, tra cui l’ansietà; ma è un fondamento della fiducia nello stato. Se invece, foss’anche con intenti lodevoli, si fornissero notizie parziali e reticenti, si finirebbe per alimentare sospetti e dicerie dalla conseguenze potenzialmente esiziali. Secondo, fiducia nella scienza e negli esperti. L’onere qui ricade soprattutto sui politici che più hanno alimentato lo scetticismo verso gli esperti. Proprio questi trascorsi potrebbero dar loro maggiore credibilità di fronte ai propri elettori al riconoscere, nel caso specifico, l’importanza di affidarsi alla scienza. Terzo, unione di intenti fra forze politiche contrastanti, favorita dal fatto che il governo e le amministrazioni delle regioni più coinvolte coprono praticamente l’intero arco costituzionale. Un accordo sulla prevenzione dell’epidemia, fermo restando il dissenso sulle altre iniziative di governo, dovrebbe sopire il timore che le misure adottate riflettano interessi di parte.

 

Di fronte a crisi acute, riemerge a volte la tentazione di cercare nell’autoritarismo la soluzione alle indubbie imperfezioni del modello occidentale. A ben guardare, però, la storia insegna invece che proprio nelle emergenze si conferma il celebre detto di Churchill: la democrazia è la peggior forma di governo, se si eccettuano tutte le altre. Chissà che anche per la nostra democrazia in difficoltà questa non possa essere un’occasione per risollevarsi.

Le conseguenze (economiche) delle epidemie nella storia

 

di Giovanni Federico

Storico dell'economia, New York University Abu Dhabi

 

Ovviamente nessuno è in grado di prevedere l’effetto economico di una pandemia in corso. Troppe variabili sono sconosciute – quanto durerà, quante persone saranno colpite, quante purtroppo moriranno, in quali paesi/settori economici si avrà il maggior numero di contagiati. Diventa quindi naturale cercare di capire attraverso le pandemie del passato. Purtroppo, non è così facile. Esiste un solo caso di pandemia di origine influenzale recente, la tristemente nota Spagnola. Sappiamo molto della sua evoluzione nei paesi avanzati – e sono recentemente usciti vari libri in proposito (Laura Spinney, L’influenza spagnola o il recentissimo Catharine Arnold, Pandemic 2018), pieni di descrizioni spaventose. Sappiamo anche che ha colpito prevalentemente i giovani fra i 15 e i 40 anni, ma non abbiamo l’informazione fondamentale – quanti sono stati i contagiati e quanti sono stati i morti a livello mondiale. La stima più comune arriva a un totale di 50 milioni (e addirittura fino a 100) su circa 1.800 milioni, ma un lavoro recente suggerisce una cifra di “soli” 20 milioni di morti in eccesso – cioè oltre il normale.

 

Anche se l’avessimo, sarebbe impossibile valutare il suo effetto economico separatamente da quello della guerra. Guerra e Spagnola hanno ridotto la forza-lavoro e quindi in teoria hanno aumentato i salari, ma la guerra ha anche determinato la Rivoluzione russa, il crollo del commercio e del sistema monetario mondiale, con conseguente inflazione.
Per trovare esempi di pandemie “pure” bisogna andare più indietro nel tempo. Si potrebbe andare indietro fino alla cosiddetta peste (vaiolo) Antonina (165-180 d.C.), che secondo alcuni ha indebolito l’Impero romano iniziando la sua decadenza, o a quella di Giustiniano (541-542 d.C.), che potrebbe aver impedito la riconquista bizantina dell’Italia. I due casi più studiati sono però la Peste Nera (1348-1350) e la peste del 1630 in Italia. La prima era letale per il 70 per cento dei contagiati e uccise da un terzo a due terzi della popolazione europea. La popolazione tornò ai livelli della metà del Trecento lentamente – forse solo nel 1600, anche perché la peste sarebbe rimasta endemica fino al Settecento.

 

Nel breve periodo, l’epidemia provocò un blocco totale dell’attività economica e nel medio-lungo periodo il calo della forza-lavoro ridusse il reddito totale. Però i sopravvissuti se la passarono decisamente meglio. La terra da coltivare e il capitale erano rimasti gli stessi, e il lavoro era divenuto più scarso. Nei settant’anni successivi, il salario reale giornaliero dei lavoratori edili non qualificati a Firenze più che raddoppiò e il reddito pro capite aumentò del 40 per cento. Il confronto fra le dure cifre dimostra che la distribuzione del reddito divenne molto più egualitaria. L’aumento della popolazione nei secoli successivi produsse l’effetto opposto – un calo dei salari e un aumento della diseguaglianza. La peste del 1630 è stata lievemente meno grave della Peste Nera in termini di morti, ma secondo Alfani ha avuto un effetto molto negativo sull’economia italiana. L’Italia (o meglio il centro-nord) era stata il paese manifatturiero più avanzato d’Europa nel Medioevo ed era ancora nel XVII secolo una potenza industriale in alcuni settori del lusso, seppur in difficoltà di fronte alla concorrenza dell’Olanda e di altri paesi nel nord Europa. La peste del 1630 fu più grave in Europa del sud e colpì soprattutto gli abitanti dei centri urbani, dove si concentrava l’attività industriale, e, pare, i giovani sotto i trent’anni.

 

L’effetto sui salari dei lavoratori non qualificati fu modesto perché i vuoti provocati dall’epidemia furono colmati da immigrati dalle campagne. Questi ultimi non potevano però sostituire i lavoratori industriali qualificati, e quindi si sviluppò una crisi da cui città come Venezia non riuscirono a sollevarsi. Ovviamente, e per fortuna, il coronavirus è molto meno letale della Yersinia pestis e siamo molto più attrezzati a combatterlo dei nostri antenati. Altrettanto ovviamente, le caratteristiche dell’economia sono diverse. Ma il confronto fra le due epidemie mette in luce un punto importante. Le conseguenze dipendono da chi è colpito: la Peste Nera devastò in misura simile tutta l’Europa, la peste del 1630 invece interessò gruppi più ristretti, che per sfortuna dell’Italia coincidevano con la parte più avanzata della sua economia.

Xylella e Covid-19, la morte e la rinascita degli esperti

 

di Roberto Defez 

Ricercatore Cnr, membro gruppo Seta (Scienze e tecnologie per l’agricoltura)

 

C’era una volta il ministero della Sanità, poi convertito in ministero della Salute. I due termini sono simili, ma non sinonimi. La Salute richiama un transitorio benessere individuale, mentre la Sanità riguarda la gestione della salute in una comunità. Sembra un dettaglio, ma in questi giorni è un dettaglio che conta. Ora che l’epidemia coinvolge tutti, capiamo che la nostra salute individuale dipende da quella di tutte le persone che incontrano quelli che noi incontriamo. Se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, ora vediamo che servono decisioni coordinate dal governo e non dei singoli assessori per ridurre incontri, contagi e gestire le emergenze ospedaliere. Ma non solo. Abbiamo scelto chi ascoltare: virologi, epidemiologi e immunologi. Tom Nichols ha pubblicato The death of expertise (tradotto da Luiss La conoscenza e i suoi nemici), per descrivere l’arroganza che illude ognuno di noi di essere esperto di tutto. Per adesso, terrapiattisti, no-vax, negazionisti dell’importanza della sperimentazione animale, maghi e sciamani tacciono di fronte al Covid-19.

 

Quando il gioco si fa duro, le competenze servono. Ma solo quando l’emergenza è sanitaria. Se invece parliamo di agricoltura i santoni la fanno ancora da padroni. Tutti abbiamo sotto gli occhi due epidemie: Covid-19 e Xylella. In entrambe compare un’improvvisa e inaudita patologia per cui nessuno ha ancora una cura. Nascono a otto fusi orari di distanza da noi, ma atterrano devastanti in Italia. In entrambi i casi il Fatto Quotidiano sposa le tesi opposte a quelle degli scienziati più autorevoli. Per una abbiamo istituito zone rosse, zittito il campionato di calcio e chiuso le scuole. Per l’altra, invece, politici e amministratori hanno bivaccato lasciando morire undici milioni di piante di ulivo.

 

Su Xylella hanno dato la parola a cantanti, comici e ristoratori. Per gli ulivi del Salento non è stata fatta una zona rossa né arancione e nemmeno giallo canarino. Anche perché la procura di Lecce ha messo sotto inchiesta il commissario straordinario del governo, il generale Giuseppe Silletti, che proponeva una zona gialla. Non contenta, in Salento la magistratura ha indagato e imbavagliato gli scienziati che avevano scoperto Xylella. Il grande “patologo vegetale nazionale”, ossia Carlo Petrini di Slowfood, ci indottrina su Repubblica su come resuscitare gli ulivi “curando la terra”. Ci evoca un paradiso in cui con i rimedi della nonna si sconfigge un patogeno da quarantena come Xylella, che devasta 35 tipi di piante diverse (ciliegio e mandorlo, rosmarino, lavanda, mirto, oleandro e alloro) e si annida anche su piante di pomodoro. La “nuova” cura usa tre sostanze biologiche, come se “biologiche” volesse dire “salutari”. Una è il rame, un inquinante endemico dei suoli che sotto la veste di poltiglia bordolese è altamente tossico per gli organismi acquatici; un’altra, l’acido citrico, è due volte più tossico del famigerato glifosate. Ma sono biologiche, al pari di amianto, cicuta o petrolio. Come modello propone un latifondo da 250 ettari in agro di Grottaglie e, in maniera retorica, offre al lettore l’alternativa: o la pozione magica o si devono tagliare le piante “come fa il vicino”. Ovviamente nessuno gli domanda quante siano le piante infette da Xylella a Grottaglie. Secondo i rilievi del monitoraggio fitosanitario del 20 dicembre 2019 le piante infette da Xylella a Grottaglie erano due: una più una. Questo solo perché lo tsunami Xylella non vi è ancora atterrato. Il latifondo ne ospita 40 mila, il vicino non si sa (chi sia). Auguriamo a tutti gli agricoltori di Grottaglie, pugliesi e europei di non avere mai a che fare con Xylella. Speriamo di cuore che alle due piante infette non ne segua mai più nessuna. Come ci auguriamo che nessuno sia più infettato da coronavirus. Ma non vorremmo che i riti voodoo esclusi dalla medicina, rientrino dalla finestra dell’agricoltura. Sarebbe tempo di smentire Tom Nichols prima che alla morte delle competenze si sommi anche la desertificazione dell’agricoltura e delle conoscenze scientifiche. Perché se tutti i giovani più promettenti fuggono all’estero è anche per colpa di questo clima di mala-informazione dove serve un’epidemia per svegliarsi e guardare negli occhi le vere emergenze del paese.

Più forti con la scienza open-source  e la collaborazione internazionale

 

di Ilaria Capua

Direttrice del Centro One Health of Excellence dell’Università della Florida

 

E’ il 15 marzo del 2006 quando il New York Times pubblica un articolo dal titolo “Secret Avian Flu Archive” e descrive Ilaria Capua come “la scienziata che ha sfidato il sistema rifiutando di inviare i propri dati al database protetto da password dell’Oms. Al contrario, ha reso pubbliche le informazioni e ha invitato i suoi colleghi a fare lo stesso. Ha sicuramente ragione lei”. Ci sono voluti quattordici anni per comprendere l’importanza della condivisione delle informazioni in momenti d’emergenza come questo, per far capire anche a chi non era d’accordo che in queste situazioni bisogna superare i protagonismi, i campanilismi, anche a livello internazionale, e reagire con una rete di conoscenza internazionale e globalizzata.

 

Come la globalizzazione rende vicini posti anche lontani e quindi, di conseguenza, può portare patogeni che si trovano nella foresta nel giardino di casa propria, così la tecnologia ci permette di avvicinare ciò che è geograficamente lontano e studiarlo. Oggi possiamo studiare sequenze che si trovano in Mongolia oppure in Australia, e con una rapidità che anni fa era impensabile. L’iniziativa sulla condivisione delle sequenze lanciata nel 2006 ha creato un incidente diplomatico che però ha gettato le basi per la costruzione di una nuova infrastruttura che supera i confini geografici e mentali. Oggi dobbiamo migliorare e potenziare quell’infrastruttura, ovvero fare un passo in più. Immagino un network, una rete di collaborazione pre-organizzata che coinvolga gruppi di eccellenza che lavorano sugli stessi aspetti per trovare sintesi e non concorrenza. Se in tempi di pace di arrivasse a costruire una vera task force scientifica contro le pandemie avremmo risposte chiare, internazionali, e più veloci. Si potrebbe anche cercare di ridurre i danni economici perché avremmo dati più solidi e modelli più accurati, che possano ridurre l’incertezza. Intravedo la necessità di uno sforzo sovranazionale che sia in grado di capitalizzare sulle punte di eccellenza internazionali, cercare sinergie virtuose e finanziare questo genere di ricerca a flusso continuo, non solo durante le emergenze.
Con la trasparenza dei dati e la collaborazione internazionale siamo più forti. Basti pensare a quanto stiamo perdendo, anche economicamente, per la questione dello stigma dell’Italia, considerata l’untrice d’Europa. E non è così: L’Italia fa parte dell’Europa e della dinamica di diffusione europea. I dati genetici ce lo mostreranno, l’Italia non è un’isola a parte. Ma non è la politica che deve rispondere adesso, è la scienza. La politica deve trovare una soluzione per ribaltare la percezione del nostro paese da essere “unico untore” a “uno dei paesi che compongono il focolaio europeo” . Come può farlo? Chiedendo alla scienza italiana di sequenziare e pubblicare il prima possibile tutti i ceppi del virus italiani. Sarebbe bellissimo vedere una responsabilità scientifica collettiva che dà al paese le risposte che servono in questo momento per ridurre l’onda d’urto. Io credo che ci sia bisogno di una piccola task force multicentrica che generi dati genetici su tutti i ceppi italiani in tempo reale. Che il virus in Italia sia arrivato dalla Cina o da altri paesi europei vuol dire che nessun paese deve portare da solo lo stigma dell’untore, ma che siamo tutti negli ingranaggi della stessa pandemia. Non servono muri, geografici, mentali o scientifici ma la consapevolezza che solo condividendo il più possibile potremmo prenderci il vantaggio che ci serve. Perché i virus non aspettano.

(testo raccolto)

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali