Guido Bertolaso (foto LaPresse)

Perché adesso vogliono tutti Bertolaso

Marianna Rizzini

Dimenticato il linciaggio degli anni scorsi, ora si invoca il suo ritorno

Roma. La voce corre dalla notte del decreto, notte di sabato scorso in cui l’emergenza coronavirus ha reso evidenti le spaccature e le contraddizioni non tanto e non solo politiche ma anche psicologiche dei governanti e della popolazione, sospesa tra incredulità e paura, voglia di rimuovere, menefreghismo e altruismo, panico e speranza, razionalità e reazione istintiva. E la voce che corre (ormai non più soltanto nelle parole di Matteo Renzi, e non più soltanto nel centrosinistra) dice: chiamate Guido Bertolaso a gestire l’emergenza.

 

Guido Bertolaso, cioè il medico che ha diretto per molti anni la Protezione civile, ex sottosegretario e commissario per terremoti e crisi dei rifiuti. Ma Bertolaso è anche l’uomo che, per quasi dieci anni, è stato trasformato in una sorta di uomo nero, anche sulla scorta di inchieste (sugli appalti del G8, sulla “monnezza”, sul sisma dell’Aquila – con contorno di polemiche sulla prevenzione) da cui è uscito assolto, anche se soltanto dopo essere passato per il fuoco incrociato del populismo mediatico, con character assassination. Da uomo della Provvidenza a diavolo nel giro di un anno: è successo in Italia, senza ovviamente aspettare l’esito del processo. Né si sono viste, dopo l’assoluzione, grandi opere mediatiche di riabilitazione del Bertolaso commissario e plenipotenziario specializzato nella gestione delle grandi crisi, la persona che ora si vorrebbe vedere in prima linea contro il virus, in nome della grande competenza che adesso giustamente si invoca, anche per evitare che il governo parli a più voci (o che le informazioni si affastellino confondendo un paese già frastornato e spaventato per una situazione di gravità non immaginabile a livello medico, economico e sociale). Che cosa ne pensano quelli che dipingevano Bertolaso come un accentratore al limite del democratico e quelli che si divertivano a tratteggiare un mondo di ombre attorno a lui, specie sulla questione appalti del G8?

 

Ma anche soltanto la capacità di gestire può suscitare polveroni di populismo mediatico. Diceva nel 2016 Guido Bertolaso a questo giornale: “Nel 2001 è stata riorganizzata in modo particolare la struttura di riferimento della Presidenza del consiglio, con una struttura di comando chiara. Il problema nostro spesso non è garantire i soccorsi, ma coordinarli, in un paese di individualisti anche a livello istituzionale”. Individualisti a livello istituzionale. Ora però il problema è anche quello dell’individualismo misterioso della rimozione collettiva (vedi le frotte di fuggitivi alla stazione di Milano sabato notte), di fronte alla quale si spera che “la voce unica” di un supercommissario alla Bertolaso riesca a fare quello che gli appelli di presidenti e vip finora non sono riusciti a fare: convincere le persone che la situazione è seria, e intanto cercare di amplificare la capacità di tenuta degli ospedali. Sempre nel 2016, Bertolaso parlava del modello italiano in chiaroscuro: fare squadra, sfruttare al meglio le potenzialità. Possibile, diceva, ma bisogna ricordarsi che la tendenza è quella di un “modello italiano non pianificato”, figlio della contingenza, sedimentatosi emergenza dopo emergenza. E oggi che la realtà sembra non soltanto un’emergenza, ma un brutto romanzo distopico, cadono tutti i castelli del populismo mediatico che vede l’uomo potente o capace di gestire sempre e comunque “oscuro”. Ora si vuole Bertolaso anche in zona populista, ma senza passare dal via, e cioè dal riconoscimento che la gestione Bertolaso non era condannabile come è stata condannata, non dai tribunali ma dal chiacchiericcio demonizzante. E mentre la sensazione di solitudine e smarrimento cresce, e c’è chi dice “siamo in guerra”, il nome del supercommissario ricorre nelle telefonate concitate tra ministri, e tra governo e opposizione. Che tutto questo rappresenti, per eterogenesi dei fini, anche una riabilitazione di Bertolaso, oggi non ha importanza, viste le circostanze. Ma che la circostanza stessa insegni qualcosa sull’“esecuzione sommaria” mediatica di chiunque eserciti il potere, anche a fin di bene, di importanza ne ha molta, per il presente e per il futuro.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.