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Una nuova governance globale contro le infezioni virali

Umberto Minopoli

Dovremmo liberarci dell'assillo di trovare cause "ecologiche" o ambientali per ogni evento naturale. E iniziare a prepararci a convivere con i virus

Più morti (di persone anziane) che in Cina. Perché? Nei colloqui tra familiari o al telefono, chiusi in casa, è questa la domanda. Chi sa rispondere? I giornali e i commenti in tv elencano varie ipotesi. Molto diverse tra loro. Ma molto diverse, anche, a secondo che a rispondere siano gli esperti ( virologi, medici ed infettivologi) o i commentatori non esperti. Questi ultimi sembrano sempre tentati dalla ricerca di possibili spiegazioni ecologiche o ambientali alla supposta letalità del virus in Italia. Gli esperti, invece, sembrano piuttosto sorpresi e perplessi dalla letalità del virus in Italia. E poco propensi a cercare cause "ambientali".

 

I non esperti elencano almeno sei possibili spiegazioni del numero delle fatalità: i sistemi di calcolo; il numero di tamponi eseguiti; il fatto che il focolaio (al nord) sia stato l'ospedale; l'età alta della media anagrafica in Italia; il polmone dei fumatori; l'interazione tra generazioni (in Italia c'è più convivenza tra vecchi e giovani). Ovviamente c'è chi si spinge a chiamare in causa le polveri sottili in pianura Padana (come se la regione di Wuhan fosse meno inquinata della pianura Padana).

 

I medici e i virologi fanno meno sociologia. E sono più attenti all'epidemiologia (caratteristiche dei gruppi umani colpiti dall'infezione). Gli esperti sembrano propendere, nello spiegare le differenze nei numeri della letalità in Italia, non per cause strutturali, ambientali o di stili di vita "italiani". Piuttosto, si propende per fattori, direbbero gli epistemologi, "casuali o caotici": sistemi di calcolo, specificità anagrafiche, interazioni tipiche nelle popolazioni colpite.

 

Dovremmo liberarci dell'assillo (ormai un refrain) di trovare cause "ecologiche" o ambientali per ogni evento naturale. E solo per trovare una causa antropica di ogni disastro o evento catastrofico. Non esiste, nell'epidemiologia e nelle statistica delle infezioni virali (specie di quelle tipo Sars, tra cui il Covid, che attaccano cioè le vie respiratorie) una possibile tassonomia - sociale, ambientale, anagrafica, ecologica o di stili di vita - che spieghi la diffusione del contagio: tutti, letteralmente, e in ogni realtà geografica o ambientale ,quando il microbo è attivo e in circolazione, possono ammalarsi di un virus Sars. Per una sola ragione: la facilità di trasmissione. Lo scambio di particelle liquide infinitesimali attraverso il contatto diretto e ravvicinato tra persone è, purtroppo (dopo quella di un microbo patogeno, eventualmente, diffuso in aria e per fortuna, non verificato, finora) è la modalità di trasmissione più facile e banale. Per altri virus patogeni (es. Ebola o Hiv) non è così: le vie di trasmissione sono più difficili. E le epidemie, per questo, più contenute.

 

Purtroppo c'è una sola evidenza "ecologica" nei virus Sars (oltre la constatazione, non banale, che la "calda" Africa sembra indenne al virus): esse originano, almeno finora, tutti da "spillover" (passaggio da animali ad uomo). Il "reservior", il portatore originario del virus (poi diventato umano), sembra essere sempre un animale selvatico che trasferisce il virus ad animali domesticati o all'uomo. Gli ambienti "iniziali" di infezione, perciò, sono spesso quelli in cui, per ragioni varie (alimentari,allevamento o incidentali) un virus Sars può trovare più facilmente un vettore iniziale (lo spreader): da un animale a un un uomo o una donna che parla, contatta altri, viaggia. L'aereo o la nave fanno il resto.

 

Tutte le Sars degli ultimi 20 anni (tra cui il coronavirus) sembrano essere nati, dispiace dirlo, da luoghi in cui lo spillover è facilitato dalla promiscuità tra animali selvatici di numerose specie, animali domestici e uomo. I "wet market", vendita di animali vivi selvatici per scopi alimentari, del Sud della Cina. I cinesi li stanno chiudendo. Forse con ritardo. Ma non illudiamoci: un virus influenzale tipo Sars, può saltare o essere "saltato" dall'animale selvatico in altri organismi viventi,in tempi e luoghi diversi, stare silente per tempi indecifrabili, e poi all'improvviso "decidere" di attivarsi, di esplodere ("outbreak" in inglese), di infettare. Dobbiamo, purtroppo, convivere con le infezioni virali. Esse saranno, forse, la principale causa di malattia in un mondo iperconnesso, dove (e questo non si potrà cambiare) i trasporti e la mobilità delle persone saranno sempre più rapidi, numerosi e veloci. E dove, quindi, un'epidemia diventa pandemia a velocità che eguagliano quelle del volo umano. La sola vera difesa verso l'infezione, non illudiamoci, resterà quella della più rapida possibile "scoperta" del portatore e del suo immediato isolamento. Cominciamo ad abituarci all'idea che ( magari con app o sensori) riuscire a comunicare il nostro stato di salute, alla velocità della luce, diventerà una tecnica contro il pericolo di epidemia.

 

Dopo il Covid, attendiamoci almeno due grandi cambiamenti di "agenda" politica: un healty new deal. L'economia, altro che green, dovrà reinvestire, subito, in sistemi sanitari, strumenti e presidi per la salute, standards di trattamento e preparazione alle epidemie, norme igieniche internazionali, sistemi di detectazione dei rischi epidemici. La scienza dovrà fare altrettanto.

 

Vale la premonizione di Bill Gates: i virus sono la minaccia sanitaria globale del futuro. E le tecnologie innovative, insieme ai farmaci e ai vaccini, saranno la frontiera della mitigazione della minaccia. La medicina e la ricerca biomolecolare dovranno avere priorità assoluta e risorse dai governi. E soprattutto, ai virus globalizzati va risposto con la globalizzazione della sfida. Occorrerà una nuova governance globale della lotta alle infezioni virali e ai patogeni. L'Onu dovrà dare all'Oms ( l'agenzia per la salute) lo stesso rilievo che dà all'Ipcc (l'agenzia per il clima); dare alle patologie pandemiche la stessa attenzione che dà, oggi, alla temperatura della Terra: una pandemia oggi crea non meno danni dei temuti cambi climatici domani, fa danni globali nell'immediato più che quelli ipotizzati, dall'aumento del caldo, fra 50 anni o nel secolo che verrà. Per i cambi climatici, magari, c'è più tempo per adattarsi. I cambi, la mutazione, gli spillover dei virus infettivi ci fanno male subito.

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